Uno
sguardo trasversale
“Restare
per cambiare, cambiare per restare”.
Motto
originario di ART VILLAGE -San Severo
Si
ritorna a parlare del Ghetto di Rignano Garganico, in provincia di
Foggia, emblema della schiavitù moderna made in Italy, almeno
quattro lustri di tratta degli schiavi!
Scandalizzarsene?
E perché mai? Dopo Auschwitz tutto è possibile.
Questo
“regno dell’illegalità”, come l’ha definito l’assessore
alle politiche giovanili, alla trasparenza, alla legalità e
all’immigrazione della Regione Puglia, Guglielmo Minervini, alla
riunione tenutasi alla Prefettura di Foggia il 13 maggio scorso con
alcuni “presunti” delegati del Ghetto, i sindacati e il mondo
associazionistico, non è un’eccezione alla regola né qui in
Capitanata, né nel resto della penisola, né altrove. Dunque,
nemmeno possiamo meravigliarci se la Regione Puglia abbia deciso di
smantellarlo definitivamente, secondo quanto definito nel “piano di
azione sperimentale per un’accoglienza dignitosa e il lavoro
regolare dei migranti in agricoltura, Capo free –Ghetto off”
deliberato lo scorso 2 aprile (B.U. Puglia 16-04-2014), e se proprio
adesso che la task force dell’assessore Minervini è pronta ad
agire, e che l’annuale Carovana antimafia di Libera si sia decisa a
passare da queste parti, si sollevino rivolte di caporali e/o
soggetti definiti tali, che su quel Ghetto hanno fatto la loro
fortuna, verso chi l’idea di farlo chiudere aveva cominciato a
proporla attivamente già almeno dal settembre 2012 con il progetto
“Ghetto Out”: i senegalesi Mbaye Ndaye e Papa Latyr Faye (alias
Hervé), insieme a Tonino D’Angelo, responsabile di Art Village di
San Severo, e il supporto di Libera, della CGIL-FLAI di Foggia e
delle cooperative “Pietra di scarto” e “L’Albero di pane”.
Né, ci deve minimamente stupire se (e non bisogna avere paura di
dire che) la Regione, dopo tanti anni di assenza o di inerte presenza
in materia di immigrazione nella Provincia di Foggia, si trovi oggi
costretta a dover trattare non proprio con la collettività varia ed
eterogenea che popola il Ghetto di Rignano Garganico ma, appunto, con
un grappolo di persone ambigue che si spacciano per suoi delegati
sostenendo assurde ragioni a favore del suo mantenimento. Sì, perché
le voci che circolano dentro e fuori dal Ghetto descrivono Ibou,
Sonia, Abdullah, Alfa, Ibrahim e Ibahim, ossia gli interlocutori
principali dell’attuale contrattazione con la Regione, come quel
tipo di soggetti attraverso cui si realizzano le pratiche di
mediazione tra lavoratori e imprenditori, l’organizzazione e la
sistemazione dei migranti nelle baracche fatiscenti, i trasporti da
queste ai campi, e quant’altro. Qualcuno li definisce “caporali”,
ma questa categoria sembra troppo ristretta, o comunque non adeguata,
per esempio, a Ibou e Sonia, che sussultano e si agitano nervosamente
a udire tali affermazioni. Ibou, quello che ha pubblicamente negato
le aggressioni del 30 aprile contro due giovani africani di Casa
Sankara, Moussa e Karim, andati al Ghetto con un furgone a prendere i
migranti che volevano partecipare all’assemblea prevista per
l’arrivo della Carovana Antimafia; Sonia, la ragazza africana,
madre di una bambina, che vive al Ghetto gestendo un emporio, un
ristorante e dei posti letto dentro un rudere da circa dieci anni.
Ma
se le parole ingannano facilmente, i fatti saranno più persuasivi.
Il
7 maggio 2014, durante la riunione tenutasi al Ghetto con gli stessi
attori, in mezzo a quel centinaio di persone -tra africani, esponenti
delle varie associazioni e dei sindacati- che circondavano l’équipe
di Minervini, diversi soggetti schierati dietro il grande cerchio
inveivano e imprecavano contro alcuni esponenti di Casa Sankara e Art
Village, impedendo loro di prendere parola. In particolare
ringhiavano contro Mbaye, coordinatore di Casa Sankara e principale
promotore di “Ghettto out”, ma la loro rabbia si diffondeva
apertamente contro chiunque essi confondessero per operatori di Art
Village, Casa Sankara, Libera e, insomma, contro la rete umana
partecipante a questa rivoluzione
nonviolenta
che in Capitanata si sta svolgendo almeno da un paio d’anni sotto
l’indifferenza dei mass-media e delle istituzioni nazionali. A
nessuno che fosse associato a questi gruppi, è stato permesso di
prendere parola, compreso al sottoscritto. Ma, bando ai rammarichi,
scriviamo appunto per capire il perché di tanta tensione,
agitazione, aggressività, violenza, tanto ribollire e tante
maldicenze verso chi da anni lavora all’emersione dei casi di
schiavitù e le tante e disperate situazioni di illegalità non solo
nel Ghetto di Rignano.
Sia
Ibou, sia Sonia, durante questa assurda riunione, negavano
apertamente che al Ghetto ci siano caporali e si svolgano attività
illegali di vario genere (negli ultimi anni si sente parlare
dell’aumento della prostituzione, dello spaccio degli stupefacenti
e del commercio delle armi legato a clan mafiosi oriundi), e mentre
il primo urlava a piena voce che le aggressioni del 30 aprile sono
state inventate per mettere in cattiva luce il Ghetto (lui che dice
di esserci arrivato solo un anno fa), un gruppo di africani,
staccandosi da vari punti della canea generale, si è precipitato
contro Mbaye e gliene ha date di santa ragione, tanto che la stessa
riunione si è dovuta interrompere, perché tutti sono dovuti
intervenire per fermare questo eccesso di follia. Un episodio che non
ha avuto molta risonanza nei commenti del giorno dopo, sebbene Art
Village e Libera abbiano pubblicato la sera stessa un appello di
solidarietà per Mabye, come avevano fatto per le aggressioni di
Moussa e Karim. Come dire, tutto bene quel che finisce male! Ma che
si voglia tacere su questa ennesima aggressione è comprensibile,
perché chi lavora da tanto tempo in queste situazioni, sa quanto è
facile trovarsi in pericolo e tende, ora che la Regione si è decisa
a intervenire, a valorizzare ciò che di positivo si può trovare. E
se ne trova, è vero!
Infatti,
il 13 maggio, alla Prefettura di Foggia, le cose sono andate
decisamente meglio e, bisogna dirlo, proprio grazie all’assessore
Minervini, alle sue capacità diplomatiche e maieutiche, pur entro i
limiti evidenti circa la conoscenza della pluralità delle
problematiche connesse al Ghetto che ha potuto però approfondire
grazie alla mediazione della rete già esistente. La fantomatica
delegazione del Ghetto, i cinque che giorno 7 avevano lasciato i nomi
a Minervini (più uno auto-invitatosi, e non vi diciamo chi!), hanno
cominciato a ritrattare le proprie affermazioni, nel coinvolgimento
emotivo prodotto da questa tavola rotonda speciale divisa in due: da
una parte, i rappresentanti della CGIL-FLAI di Foggia e della rete
associazionista che sostengono la rivoluzione sankariana, dall’altra
i rappresentanti di CISL, ANOLF e il padre scalibriniano Arcangelo
Maira -migrante anche lui in un certo senso, essendo nato in Sicilia
e cresciuto in Svizzera- che opera nel Ghetto da qualche anno con il
progetto “Io ci sto”, diventato in seguito “Ghetto vivibile”.
In
questa vera e propria esperienza di dialogo - che cerca di mettere in
pratica i principi della risoluzione nonviolenta dei conflitti pur
condizionata dall’assenza di interpreti-, Sonia arriva anche a
chiedere “scusa della violenza” scatenatasi alla riunione scorsa
e, sotto la pressione maieutica di Minervini, che chiede ai ragazzi
del Ghetto di non esprimersi “in questa sede” in nome della
collettività ma solo “a titolo personale”, finisce per ammettere
di svolgere lei stessa “attività illegale”. Una vera e propria
confessione, carica di un’emotività indescrivibile, da fissare nel
tempo perché il suo significato rischia rimanere indecifrato
nell’insieme degli sviluppi e dei tanti colpi di scena di questa
nuova riunione. Fondamentale rivelazione poiché, tra gli obiettivi
principali di Minervini, in armonia con i desideri del movimento di
liberazione costituito da Casa Sankara, Libera, Art Village e
CGIL-FLAI, c’è quello di garantire per “ciascuno” un passaggio
“quanto più sereno” dalla condizione di schiavitù a quella di
un ordinario essere umano, con carte in regola per lavorare e
garantirsi un futuro, un percorso di legalità molto diverso da un
mero discorso assistenzialistico.
Come
si sarà compreso, la problematica principale del Ghetto di Rignano
oggi si gioca su una pluralità di aspetti difficilmente
sintetizzabili: da una parte l’esigenza di rompere, in un punto
preciso, questa lunga catena che tiene legati migliaia di esseri
umani a una condizione di schiavitù da almeno un ventennio,
“spezzare l’anello”, come dice Minervini stesso, di questo
sistema organizzato di illegalità che soggioga anche
psicologicamente le vittime ai loro carnefici, ossia i datori di
lavoro e i caporali, questi ultimi essi stessi vittime e carnefici;
da cui, la necessaria pianificazione per la transizione dalla
condizione di illegalità a quella di legalità per centinaia di
migranti, almeno 1000. (Ma, appunto, con procedure
andranno a garantire la buona riuscita di tale transizione?)
Dall’altra parte, una pluralità di visioni e di concezioni, una
problematica di diversità di approcci e modi, di mentalità e, al
limite, di etiche,
da parte dei vari attori sociali coinvolti in questa avventura:
laicismo e religiosità, la dicotomia principale alla base di due
concezioni diverse del mondo e dell’esistenza, cittadinanza attiva
e carità, autodeterminazione e assistenza, denotanti due modi
diversi di concepire la reciprocità
e l’Altro;
politica dal basso e politica dall’alto, volontariato e lavoro
retribuito, lavoro regolare e lavoro in nero, legalità e illegalità.
Ma,
appunto, in che modo questa pluralità si organizza intorno
all’obiettivo di smantellare il Ghetto di Rignano entro il primo
luglio, come prevede di fare la Regione? E non ci sono forse altri
obiettivi? Ci sono e sono consequenziali a questa prima tappa? Oppure
ci sono e sono le consequenziali perché pre-esistono
ad essa?
Niente
è chiaro e non è semplice oggi fare il punto sui conflitti emersi
nelle ultime due settimane e quelli che possono ancora emergere
intorno alla questione del Ghetto di Rignano. Se non altro perché
questa faccenda non riguarda solo i migranti che lo occupano ogni
anno, ma anche il mondo associazionistico, cioè operatori, laici e
credenti, anch’essi incatenati a una forma di schiavitù, quella
derivante dalla loro scelta, gli uni sopraffatti dal desiderio di
autodeterminazione, gli altri dal bisogno di carità, tutti divisi
tra l’imbarazzante e difficilissimo lavoro dal basso e le direttive
provenienti dall’alto, sovente mascherate con abusi di termini come
“partecipazione”, ad esempio. E senza contare la lacerazione
interiore che in ciascuno di questi operatori e attivisti (specie in
quelli con più anni di formazione e di esperienza) genera la
consapevolezza che su entrambi i fronti, verso le istituzioni quanto
verso le persone, si sia laici o credenti, occorre un lavoro di
contrattazione il quale, com’è risaputo, è solo una fase
temporanea di un lungo processo, e non si può mai essere sicuri che
termini in una pacificazione, anche quando è bene organizzata -
figuriamoci quando non
lo è!
A maggior ragione se il conflitto con cui si ha a che fare in questo
territorio è profondo, cioè da emergenza sociale subentrata un
giorno indefinito nel passato si è fatto costume, mentalità,
abitudine, tradizione, passiva consuetudine, inerte presente senza
memoria, senza identità.
E’
in rapporto a questo passato rimosso, violento e contraddittorio,
evoluzione di dissidi sociali ed esistenziali mai mediati, scontri
sommersi mai analizzati, che si muovono le nostre prime
interrogazioni.
Perché
la Regione ha preso solo ora questa nobile decisione di smantellare
il Ghetto di Rignano? Non poteva farlo quindici anni fa? Dieci anni
fa? Cinque anni fa?
No,
non poteva. Quindici anni fa le istituzioni non sapevano o facevano
finta di non sapere, e chi sapeva e voleva fare qualcosa per
rimediarvi, non era ascoltato. Dieci anni fa, se sapevano, non
potevano ancora far finta di non sapere. Nel 2006, a seguito
dell’inchiesta “Io schiavo” di Fabrizio Gatti sullo schiavismo
nelle campagne della provincia di Foggia, la Regione oramai sapeva
tutto e non possiamo credere che non avesse gli strumenti, le
capacità e i soldi per provvedervi. Questa inchiesta però
sintetizzava una storia collettiva risalente ad almeno un decennio
prima, una storia di omicidi e sparizioni di persone dovuti ai
conflitti tra caporali e lavoratori.
L’attivista
ivoriano Lassina Coulibaly, deceduto due mesi fa, aveva cominciato
almeno dalla seconda metà degli anni ’90 a sensibilizzare
l’opinione pubblica circa la presenza dei vari Ghetti intorno a
Foggia e in particolare di quello di Rignano. L’uccisione di Hiso
Telaray, il giovane albanese ventiduenne che osò ribellarsi al suo
caporale e a cui Libera ha dedicato una delle prime annate di vino
autoprodotto nelle terre confiscate alla mafia, risale a quindici
anni fa (1999). Tantissimi casi, e anche tante denunce nel corso
degli anni, non sono servite a far smuovere né i governi locali né
quelli nazionali.
Soltanto
nel 2007, se dobbiamo essere giusti, quando lo stesso giornalista
scrive una nuova inchiesta per evidenziare l’inerzia delle
istituzioni, solo allora la Regione si decide a inaugurare tre miseri
alberghi diffusi, con non più di 100 posti letto in totale ed
esclusivamente per braccianti stagionali con permesso di soggiorno,
nell’intera provincia di Foggia considerata all’unanimità la
provincia più marcata dal fenomeno dello schiavismo legato
all’agricoltura, a causa della sua estensione e della sua
fisionomia geo-economica (si vedano al riguardo anche gli ultimi
dossier statistici sull’immigrazione). Il Ghetto di Rignano era
ancora un capitolo lontano.
Si
capirà dunque perché, sebbene speranzosi verso le promesse e gli
ottimi propositi della Regione, non possiamo esimerci dal ricordare
quanto abbia intensificato i conflitti, non soltanto al Ghetto di
Rignano, la sua assenza o la sua poca presenza fino ad oggi. E senza
tacere del fatto che uno di questi alberghi diffusi, esattamente
quello dell’agro di San Severo, il più vicino al Ghetto di Rignano
che oggi ospita Casa Sankara, è stato attivato soltanto nel luglio
2013, cioè 6 anni dopo l’inaugurazione, evidentemente sotto la
pressione dell’iniziativa rivoluzionaria “Ghetto Out” e grazie
alla posizione radicale assunta proprio dall’attuale coordinatore
di casa Sankara, Mbaye, nei confronti della situazione del Ghetto di
Rignano.
A
noi sembra appunto che è partendo dalla storia di quest’ultimo che
riusciremo a capire qualche cosa di ciò che sta succedendo intorno
al Ghetto di Rignano, oggi. Dai verbali riguardanti le tristi vicende
del 30 aprile, infatti, risulta che gli aggressori stavano cercando
un’ “altra persona” ma nessuno spiega chi è questa persona.
Dopo dieci giorni di ricerca, abbiamo capito che questa persona è
Mbaye. Perché? Perché è lui il principale animatore di questa
rivoluzione sommersa e di lotta attiva interna
alla comunità degli africani contro ogni progetto tendente a voler
conservare il Ghetto; perché è lui che dopo un mese di vita nel
Ghetto, ha girato un video di denuncia e ha lavorato assiduamente per
ospitare ad Art Village , il 7 ottobre 2012, l’“Assemblea dei
migranti del territorio, con 250 africani di varia provenienza, con
le loro rappresentanze etniche; ed è sempre lui che ha trattato con
diversi caporali del Ghetto la possibilità
di uscire dalla loro condizione di illegalità, trasformandosi così
nel principale bersaglio di chi non ha interesse a smantellare il
Ghetto, o meglio, ha interesse più che altro a mantenerlo. È lui il
mediatore
principale, anche se non ufficialmente riconosciuto, tra quel pezzo
di comunità africano-foggiana ruotante intorno al Ghetto e la rete
associazionistica e istituzionale che spinge verso lo smantellamento.
E noi certo non faremo oggi lo stesso sbaglio che abbiamo fatto ieri
con Lassina Coulibaly, di fare gli indifferenti verso le proposte e i
gesti di chi, conoscendo meglio la propria comunità di appartenenza,
ci può più facilmente orientare nella risoluzione dei suoi problemi
e dei suoi conflitti interni, ma al contempo può diventare
altrettanto facilmente vittima non solo dei caporali e del mondo
della malavita organizzata, ma anche di giochi politici
istituzionali.
Mbaye
è un giovane senegalese arrivato in Italia non molti anni fa, nel
2007. Le sue tappe sulla penisola sono state brevi e rapide, come le
sue scelte, si direbbe. Primi sei mesi a Milano e poi via verso il
sud. Manfredonia, sei mesi; Foggia, tre anni; infine, San Severo.
Perché San Severo? Per una mera questione finanziaria. A San Severo
gli affitti costano meno (non è uno slogan, ovviamente). Mbaye è
passato per l’itinerario tipico di un venditore ambulante
senegalese immigrato in Italia: con il conflitto interiore tra vivere
nell’illegalità o tentare di passare nella legalità. Alla fine
del 2011, arrestano un suo connazionale per vendita di prodotti
contraffatti, 12 anni di reclusione per la sua recidività. Mbaye si
guarda allo specchio e si dice: “Ho una famiglia, ho delle
responsabilità, non posso mandare all’aria tutto questo per dei CD
contraffatti”. Il ragionamento, veramente, è più complesso:
“Quando un senegalese arriva in Italia comincia con i CD. Lo
acchiappano due tre volte e poi non è più libero, perché entra
nella macchina giudiziaria. Il CD, inoltre, non può più dargli ciò
che gli dava prima. E lui è costretto a restare nel paese che lo
ospita più a lungo di quel che programmava. Allora comincia lo
stress … e le tentazioni. Molte persone che in Africa non toccavano
alcool, ad esempio, sono diventati alcolisti.”
Mbaye
è musulmano e vuole di vivere e agire secondo i principi del Corano.
Vive cercando di dare senso alla sua vita e a quella degli altri. Ma
la sua sorte, come quella di ciascuno, non è governata
esclusivamente da lui. Anche lui passa per un avvocato che gli
promette permesso di soggiorno e lavoro, derubandolo di 7000 euro.
Mbaye riflette a posteriori: “Lo Stato mi ha rubato i soldi. Non è
giusto. Un cittadino ha diritto di essere ospite in un paese e quindi
di avere il permesso senza pagare.” Mbaye non ha ancora messo a
fuoco la faccenda e il caso vuole che un’amica gli faccia il nome
di Art Village e di Tonino D’Angelo. Ora la nostra problematica
sarebbe già più chiara, se sapessimo che cosa Art Village stava
costruendo e aveva costruito in materia di integrazione e lotta allo
sfruttamento al momento dell’incontro con Mbaye.
In
effetti, con questo incontro si stabilisce sin da subito una
relazione che va al di là del mero bisogno di assistenza, anche
perché, sebbene Mbaye abbia trovato anche una casa ad Art Village,
lui non è proprio quel tipo di persona che si lascia assistere. La
prima prova della sua volontà di essere rispettato in questa società
di aguzzini, bianchi e neri, con o senza laurea, la dà proprio in
rapporto alla questione dell’avvocato. Tonino D’Angelo è là per
questo, soprattutto dopo aver aperto una collaborazione assidua con
Libera-Foggia, accogliendo nelle strutture di Art Village il presidio
permanente dedicato a “Francesco Marcone”. Il loro dialogo è
breve: “Se non hai paura, possiamo fare delle denunce” gli dice
Tonino. “Io non ho paura”, risponde Mbaye. Ed è così che la
storia di questo territorio comincia ad aprirsi in una direzione che
forse molti attendono da anni di intraprendere senza riuscirci. Il
giorno dopo, Tonino chiama Daniele Calamita della sezione CGIL-FLAI
di Foggia e organizza un incontro con Mbaye. Anche questo giovane
sindacalista foggiano lo mette subito sull’attenti. Mbaye ricorda:
“Ricordo bene le parole di Daniele: dobbiamo agire con
intelligenza, perché non sappiamo chi può stare alle spalle
dell’avvocato. Gli ho detto che ero pronto a tutto e abbiamo fatto
la denuncia.”
Nell’estate
del 2012 Mbaye conosce il missionario scalibriniano padre Arcangelo
sempre per il tramite di Tonino. Art Village ospita volontari della
missione scalibriniana al Ghetto nell’ambito del progetto sopra
menzionato “Io ci sto” da cui, come si diceva, nascerà “Ghetto
vivibile”. Tonino gli propone di collaborare con padre Arcangelo:
“Dobbiamo accompagnarli e nello stesso tempo tu farai la conoscenza
del Ghetto”. Mbaye risponde: “Io ci sto!”
Quando
arriva al Ghetto, però, resta scandalizzato della situazione che vi
trova, l’esperienza che fa chiunque vi arrivi la prima volta. Il
progetto dura due mesi. Lui riesce a resistere solo un mese.
Sembrerebbe che si stia tirando indietro. Invece si ritira per
meditare. Un giorno Tonino lo distoglie dalle sue meditazioni e gli
dice: “I tuoi connazionali stanno soffrendo, dobbiamo fare qualcosa
per aiutarli”. Allora Mbaye dal suo lungo silenzio pronuncia due
parole magiche: “Se per voi aiutare significa portare acqua e bagni
chimici in un luogo invivibile, io non ci sto!” Ed aggiunge: “Non
aiutiamo le persone portando acqua e bagni chimici in posti orribili
come quelli, dobbiamo invece aiutarli a uscirne”. Tonino, che da
anni predica e pratica l’autodeterminazione, gli dà ragione o
almeno non ha nessuna contro-ragione da opporgli.
Alla
fine del progetto “Io ci sto”, viene organizzato un incontro con
varie associazioni al centro interculturale Baobab di Foggia. Mbaye
chiarisce apertamente la sua posizione. Intanto precisa che non ha
niente da rimproverare all’operato di padre Arcangelo. “Lui ha
fatto ciò che poteva per aiutare gli altri, ciò che a lui sembra
giusto fare”. Per Mbaye, musulmano, il dialogo interreligioso è
fondamentale, ma i problemi sono anche di altra natura.
Scherzosamente dice: “Anche i volontari del campo ‘Io ci sto’
non ci stavano veramente, perché arrivavano alle 11.00 e andavano
via alle 19.00 a dormire in albergo”, certamente non nel Ghetto.
Per Mbaye aiutare non significa assistere. Anzi, per lui, di idee
sankariane, non si tratta di un problema di assistenza ma di
liberazione,
ciò che esprime chiaramente la frase di Sankara posta al centro
dell’albergo diffuso a lui dedicato: “Lo
schiavo che non prende la decisione di lottare per liberarsi, si
merita completamente le sue catene”.
Dopo
la riunione al Baobab, Mbaye, con il seguito di Art Village va al
Ghetto a fare un discorso per esprimere apertamente il suo dissenso
nei confronti di quella situazione e propone un’assemblea
finalizzata a creare una grande associazione di migranti.
Il
7 ottobre 2012, dunque, ad Art Village si materializza l’“Assemblea
dei migranti del territorio”, 250 partecipanti provenienti dal
Ghetto, una giornata di dialogo organizzato e di convivialità, in
cui ogni nazionalità aveva i suoi delegati e i suoi interpreti,
prima esperienza del genere in questo territorio.
La
questione principale ruotava intorno alla chiusura del Ghetto con la
proposta di costruire un percorso di rivendicazione per ottenere 20
ettari di terra della Regione, che circondano l’albergo diffuso che
l’anno seguente diventerà Casa Sankara. La discussione ha
naturalmente portato alla luce le varie problematiche che il Ghetto
chiama in causa, ma soprattutto la questione delle condizioni
abitative, la questione dei caporali e delle relazioni criminose con
i datori di lavoro corrotti e la rete a questi connessa. Ma, se
moltissimi sono stati i consensi e gli applausi all’idea di
chiudere il Ghetto e di unirsi per la richiesta di avere quelle
terre, pare che le persone che invece non erano d’accordo,
da
quel giorno hanno cominciato a contrastare la proposta. Alcuni,
ricorda Mbaye, insospettiti circa il suo ruolo, dicevano: “Questa
persona che non ha fatto nemmeno 4 anni di Italia, come farà a far
chiudere il Ghetto?” Nelle discussioni e nei vari momenti di
confronto con Mbaye, i caporali dicevano : “Nessuno può far
chiudere il Ghetto”. Mbaye rispondeva: “Io lo farò”.
È
forse questa sua autodeterminazione così passionale e coraggiosa a
esporlo facilmente a malintesi, a sospetti e a intimidazioni?
Approfondendo la sua storia, abbiamo capito che Mbaye non ha mai
chiuso gli occhi nemmeno nel suo paese. Comunque sia, se
consapevolezza abbiamo del valore dell’impegno civile, noi non
possiamo fare passare inosservato il dato di fatto che contro di lui
oggi ci siano dei caporali ad alzare la voce e, all’occorrenza, le
mani. Il seguito dell’operato di Mbaye fino a oggi in questo
territorio, non è stato altro che un assiduo lavoro di
approfondimento della condizione dei lavoratori migranti sotto i suoi
vari aspetti, un lavoro di denuncia ma anche di valorizzazione delle
risorse e delle idee positive che Mbaye è capace di individuare non
solo fra i migranti ma anche fra quegli italiani che lavorano da anni
sul tema dell’immigrazione in questo territorio. “Mi piacciono le
persone propositive” tiene a precisare.
Dopo
l’incendio di una trentina di baracche nel Ghetto, il 14 novembre
2012, Mbaye, gira con Hervé il filmato “Ghetto out” che mette in
risalto la condizione di precarietà delle baracche del Ghetto di
Rignano. Nel frattempo, sedici persone sono ospitate presso il Centro
“L’Arena” e Art Village. L’occasione è propizia per Art
Village anche per ribadire alle istituzioni l’urgenza di attivare
la struttura dell’albergo diffuso di San Severo che, ricordiamolo,
fu inaugurato nel 2007 e rimasto chiuso fino al 2013. E da questo
momento “Ghetto out” comincia a svilupparsi nel progetto che
diventerà “Casa Sankara”.
Ma
un’altra esperienza è importante sottolineare per comprendere il
tutto e il ruolo di Mbaye in questo tutto. Nello stesso mese, Mbaye
è invitato dal centro interculturale Baobab a partecipare al
Progetto “Ho costruito la mia casa”, finanziato col Fondo Europeo
per l’integrazione dei cittadini di Paesi Terzi. L’iniziativa
prevedeva una formazione, mediante la peer education, sulla ricerca
di una casa, l’obiettivo principale quello di “favorire l’accesso
all’alloggio da parte di cittadini stranieri”. Anche in questo
caso Mbaye ne tira fuori una delle sue: “Il nome del progetto non
coincide con il suo contenuto” e propone apertamente di usare una
parte dei soldi destinati alla cancelleria e simili per l’acquisto
di legno e paglia per “costruire” una vera casa. La proposta
viene accolta. Così, con 6.000 euro viene auto-costruita la prima
casa ecologica all’interno dei cortili di Art Village, “La casa
contro il caporalato”.
Mbaye
ci tiene a precisare i diversi elementi che hanno operato alla
materializzazione di questo progetto. “L’idea è nata
dall’osservazione delle baracche del Ghetto, dove abbiamo visto
calpestata la dignità Nera”. Ma, nei suoi ricordi, un ritaglio
particolare è dedicato al “confronto” con Domenico La Marca, il
presidente della cooperativa Arcobaleno, tra i responsabili del
progetto “Ho costruito una casa”. “Posso dire che abbiamo
realizzato questo primo progetto di autocostruzione grazie a lui”,
dice Mbaye, facendo di nuovo mostra delle sue capacità di
valorizzazione e di riconoscimento. Il seguito potrebbe comprendersi
da se stesso, se l’informazione fosse più concentrata su queste
esperienze assolutamente all’avanguardia non solo in rapporto a
questo territorio.
Il
24 luglio 2013 nasce Casa Sankara, ma il 2013 è anche l’anno della
sartoria interculturale, della formazione di chef, agricoltori e
artigiani, della costruzione di giardini e orti, della
riqualificazione degli spazi interni ed esterni di Art Village e Casa
Sankara. Percorsi che nascondono propositi e ideali fantastici: per
esempio, dalle risorse finanziarie che riescono a mettere su per la
formazione, che si rivolge anche a chi si può permettere di pagare,
una cospicua parte è destinata alle persone con problemi più
urgenti.
Dall’insieme
di tutte queste iniziative e diverse altre prende forma quel progetto
e quel movimento che andrà in certa misura a irrobustire anche
l’attuale iniziativa della Regione. L’albergo diffuso Casa
Sankara è di appena 36 posti (nelle ultime settimane sono stati
divisi in due tutti gli appartamenti per ospitare 36 migranti degli
ultimi sbarchi da Lampedusa), ma l’urgenza riguarda almeno un
minimo di 500 persone da sistemare sia sul piano dell’abitazione
sia sul piano della situazione lavorativa. Come abbiamo già
accennato, intorno a Casa Sankara ci sono 20 ettari di terra e una
palazzina di proprietà della Regione e i nostri protagonisti hanno
appunto proposto di usarne due per auto-costruire 90 case in
bioedilizia da 5 posti l’una e gli altri 18 per coltivare prodotti
agricoli utili all’autosufficienza alimentare.
Questa
idea dell’autosufficienza alimentare proviene da un’analisi di
mercato in seno alla comunità senegalese che pare sia costretta, per
esempio, ad acquistare il loro principale cereale, il “sankhal”,
dal mercato cinese quando potrebbero auto-produrlo. Mbaye spiega:
“Paghiamo ai cinesi 2,80 euro per 250 grammi di sankhal, quando
potremmo acquistarlo direttamente dal Senegal a 0,40 centesimi al
chilo”. Il sankhal si produce dal miglio con cui si fa anche il
Sougouf e l’Araw, spiega Mbaye, altri due cereali che possono
essere prodotti anche per il mercato. Dall’altra parte c’è
un’analisi del mercato del pomodoro nella Provincia di Foggia
svolta dalla CGIL-FLAI, mercato che i senegalesi, tra i primissimi
africani venuti a riempirlo alle condizioni che sappiamo, conoscono
bene oggi.
L’idea
è semplice, come si vede. E su questa semplice idea sembra che la
Regione ci stia riflettendo. A quanto pare hanno capito che è molto
meno oneroso realizzare un progetto del genere che spendere un
milione di euro all’anno per fare arrivare le cisterne d’acqua e
i bagni chimici. Ma l’avranno capito veramente? Si dice che
l’ambizioso quanto urgente progetto sia entrato nei tavoli di
lavoro della Regione a partire da settembre 2013. Esso pare preveda
anche la riqualificazione e il riutilizzo di due palazzine situate
proprio all’interno dell’Albergo diffuso, l’una del Consorzio
di bonifica e l’altra in capo all’assessorato regionale
all’agricoltura della Regione. Ma naturalmente, non ci è dato
sapere quando tutto ciò avrà inizio.
E
ci si chiederà ora, che ne sarà di tutti quei migranti stagionali
che arrivano solo per lavorare? Non spaventiamoci. La questione si
era posta già allora e Minervini disse che stavano lavorando a
“soluzioni miste”. Oggi una parte di queste soluzioni miste
sembra appunto arrivata con il Progetto “Capo free –Ghetto off”
che, come si diceva all’inizio, prevede lo smantellamento del
Ghetto entro il primo luglio e il trasferimento dei migranti presenti
in 5 tendopoli con servizi gestiti dalla protezione civile e dalle
associazioni. La pianificazione non è soltanto appunto un modo per
sgomberare “il
posto più osceno, più inimmaginabile, più incredibile, più
inaccettabile della Puglia”, come lo definisce
sempre l’assessore nelle sue “cronachette” su Facebook, ma
un’operazione che nasconde una precisa strategia nei confronti
delle imprese che assumono in nero, le quali da una parte saranno
“incentivate” dall’altra “saranno costrette ad assumere in
modo legale”. Perché, appunto, come spiega lo stesso Minervini
agli pseudo-delegati del Ghetto alla riunione in Prefettura i quali
temono ripercussioni verso quella cinquantina di migranti che vi
gestiscono attività commerciali non in regola con le norme, “le
vere cause di questa schiavitù sono le imprese in primo luogo”.
Al
fianco di Mbaye e Tonino, lavora anche Hervé, Ange e centinaia di
altre persone di diversa nazionalità coadiuvati dalla compagine di
Art Village di cui sono oramai parte integrante. Art Village nasce
nel 2009 come centro di accoglienza e di inclusione sociale dell’ASL
di Foggia, “dove convergono esperienze di diversi gruppi e
associazioni sociali, sanitarie e culturali”. Insignito nel 2012
del premio alla sesta edizione per “Umanizzazione-Buone pratiche in
Sanità”, indetto dall’ASL Lecce, e riconosciuto nell’ambito
del “Sistema nazionale delle orchestre e dei cori giovanili”, Art
Village è un cantiere aperto di arti e mestieri, “una storia che
si va costruendo di gruppi umani” per affermare “la cultura e la
pratica della legalità” su tutti i livelli. Di ciascun operatore
di questo organismo vivente qual è oggi Art Village bisognerebbe
raccontare la storia, come dice Tonino, perché ciascuno è
protagonista di un percorso specifico che, incrociandosi con i
percorsi altrui, ha contribuito quotidianamente alla sua crescita. È
a loro tutti che dobbiamo principalmente questa svolta preziosa nella
storia delle politiche di inclusione e della lotta contro le
ingiustizie nella Provincia di Foggia. In queste pagine, abbiamo
concentrato l’attenzione su Mbaye perché, come dicevamo, era lui
il bersaglio principale delle aggressioni del 30 aprile, e perché la
sua autodeterminazione in un territorio come questo ha spaccato in
due un processo che fino a poco tempo fa sembrava irreversibile. Le
sue idee e i suoi metodi hanno trovato un terreno fertile nella rete
di Art Village connettendosi spontaneamente con le idee e i metodi di
una persona come Tonino D’Angelo su cui, pur volendo, non si può
tacere, considerata la sua lunga e preziosa esperienza nel
territorio.
Tonino
D’Angelo, è per professione un medico, ma per carattere, cultura,
indole una persona difficilmente categorizzabile. Il suo universo
intellettuale, si rispecchia nella fisionomia attuale di Art Village,
dove eroi della politica così diversi tra loro come Giuseppe di
Vittorio, Don Tonino Bello e Thomas Sankara convivono fantasiosamente
con eroi dell’arte come Pasolini e il musicista educatore
venezuelano Abreu, cui Tonino D’Angelo si ispira da diversi anni.
Appassionato lettore di Aldo Capitini e attento osservatore e
animatore della realtà di oggi in una delle province più malate di
Italia, ricorda forse più un personaggio come Danilo Dolci, che
amava costruire occasioni di partecipazione in cui arte, scienza e
politica potessero cooperare per modificare le situazioni di
emergenza e smuovere le istituzioni. Ma questa è solo una nostra
impressione. Certo è che, prolisso nelle spiegazioni, spartano
nell’agire, Tonino D’Angelo è quel tipo di personalità che,
impegnato ogni giorno contro le ingiustizie del nostro sistema
mediante la riflessione, l’analisi, la denuncia, la contrattazione,
quando questi mezzi non funzionano, passa alla praxis
adottando le strategie di lotta nonviolenta che la tradizione per
fortuna ci ha lasciato. A lui forse dobbiamo un riconoscimento a
parte.
Ora,
la questione del Ghetto di Rignano sembrerebbe più chiara nella sua
inevitabile complessità, almeno per ciò che concerne gli ultimi
episodi da cui sono partite le nostre considerazioni. Conflitti nuovi
si generano da vecchi conflitti rimasti per anni sommersi e
irrisolti. Tuttavia non pochi aspetti restano dubbi su altri
livelli
della faccenda.
Nel
2012, gli amici del presidio di Libera “Francesco Marcone” e di
LiberaAFRICA di Casa Sankara hanno lanciato una proposta di legge
che, “ai sensi della normativa vigente in materia di mafia e
criminalità organizzata” equipara tutti quegli “imprenditori
agricoli che usano manodopera di persone migranti con o senza
permesso di soggiorno, reclutandole e utilizzandole tramite il
caporalato, ovvero con la ‘mediazione’ di ‘caporali’ sia del
territorio che ‘migranti’, a veri e propri “mafiosi” (art
1.), ai quali andrebbe applicata “quanto previsto dalla normativa
in materia di confisca e utilizzo dei beni confiscati alle mafie”
(art. 2). Inoltre, questa proposta prevede che alle “persone
migranti, con o senza permesso di soggiorno, e i lavoratori italiani,
che abbiano denunciato la condizione di ‘asservimento’ ai
caporali e agli imprenditori di cui all’art.1”, sia data assoluta
“precedenza nell’assegnazione dei beni confiscati per il loro
utilizzo sociale” e che i “migranti senza permesso di soggiorno
che abbiano denunciato quanto di cui agli artt. precedenti, hanno
diritto al permesso di soggiorno e all’inserimento in progettualità
sociali di cui sopra” (art. 3).
Ma
la Regione nel maggio 2013 stipula con l’Aquedotto Pugliese un
protocollo di intesa “per la realizzazione di un Assessement
Watersanitation negli insediamenti di immigrati impiegati
nell’agricoltura stagionale della provincia di Foggia” (allegato
C alla “Deliberazione Giunta Regionale 3 maggio 2013, n. 853 -
Piano Triennale dell’Immigrazione 2013-2015"), dal quale si
evince che, fra le 4 località in cui attivare i punti di prima
assistenza igienico-sanitaria previsti per il 2013, insieme a
“Cicerone, in agro San Marco in Lamis”, località “Masseria Tre
Titoli, in agro di Cerignola” e “Palmori, in agro di Lucera”, è
annoverato anche il Ghetto di Rignano, definito “località ‘Il
Ghetto’, in agro di San Severo”, come se fosse compreso nel piano
delle proprietà pubbliche, mentre il Ghetto al confine tra Foggia,
San Severo e Rignano Garganico, sorge su “proprietà privata”. Il
che, oltre a farci sorgere il fin troppo lecito dubbio che
un’emergenza come quella del Ghetto di Rignano sia stata resa
“stabile” nella sua piena illegalità, ci fa riflettere su un
altro piccolo dettaglio: come da impegni presi con le Organizzazioni
sindacali nel “Contratto Provinciale dei lavoratori agricoli”,
non dovrebbero essere gli imprenditori agricoli proprietari di quella
terra a provvedere all’acqua per i migranti? Non dovrebbero essere
loro “a farsi carico di mettere a disposizione degli stessi il
vitto ed un idoneo alloggio per tutta la durata della fase lavorativa
e che, qualora sia richiesto, in base al credo religioso prevalente,
sia destinato uno spazio al fine di poter adempiere ai loro rituali
religiosi”?
Nello
stesso protocollo di intesa, inoltre, all’articolo 4 si legge che
la Regione, “per il tramite dell’Ufficio immigrazione” e con il
supporto del “Genio Civile di Foggia, promuove attività di
verifica e di ispezione presso i suddetti siti”. Ma, a oggi, non
risulta che siano state effettuate queste verifiche ed ispezioni che
avrebbero certamente condotto a un’inchiesta più precisa e
probabilmente alla messa in moto della macchina giudiziaria nei
confronti dei responsabili delle varie illegalità che si svolgono in
quel luogo, diverse volte denunciate dai soggetti che oggi, non
volendo più saperne di politiche di assistenza, si battono per
l’autodeterminazione. Non possiamo, infatti, proprio dimenticare
che oltre 1 milione di euro all’anno sono sprecati per portare
acqua, bagni chimici e assistenza sanitaria nel periodo del lavoro
stagionale in una proprietà privata che è stata chiamata “Ghetto”
proprio per le condizioni di miseria in cui le persone sono costrette
a vivere, un “zona franca” ma privata (e qualcuno ci dovrebbe
ancora spiegare come ciò sia possibile) dove da sempre si registra
una varietà di attività criminali su cui non è mai stata fatta una
vera inchiesta, nonostante gli appelli e le denunce della rete
costituitasi intorno ad Art Village: affitti di veri e propri ruderi,
spaccio di stupefacenti, prostituzione, controllo malavitoso della
manodopera, caporalato e sfruttamento schiavistico, che significa
anche un mercato multimilionario, evasione fiscale e truffe che
danneggiano anche gli imprenditori onesti
(voci di corridoio parlano anche di un mercato internazionale di armi
tra Foggia e i paesi dell’Est). E per quanto riguarda le condizioni
igienico-sanitarie, difficile tacere sul fatto che i bagni chimici,
appaltati a una ditta di Ariano Irpino (che si trova dall’altra
parte della Provincia di Foggia), vengono ripuliti ogni 48 ore
restando pertanto sporchi pressoché tutti i giorni, diventando
pericolosi per la sicurezza e la salute non solo dei migranti,
perché, intendiamoci, se scappa una epidemia non è difficile che si
diffonda oltre il Ghetto considerato il via vai e lo scambio con i
vari centri abitati nei dintorni e l’obbligata tratta Ghetto-Foggia
(si è già mormorato in passato di un caso di “scabbia”, ad
esempio, di cui si è preferito tacere per evitare il panico
collettivo); inoltre, macellazione in loco di animali-cadavere di
provenienza illecita, rifiuti, ancorché raccolti periodicamente,
accumulati in tante piccole discariche a cielo aperto senza alcun
reale controllo, diventando fonte di inquinamento e, al limite, di
patologie, infine, le cisterne che accolgono l’acqua non risultano
sempre pulite e la manutenzione prevista per legge è tutt’altro
dall’essere davvero
garantita.
In
un appello lanciato nel settembre del 2013, i
migranti
riuniti nell’Associazione "Ghetto out-la voce dei migranti",
la Cooperativa sociale “L’Albero del pane”, il Centro di
accoglienza della ASL FG “Art Village”, l’Associazione
“Libera-Associazioni-nomi e numeri contro le mafie”, la
CGIL-FLAI, l’Associazione “Caritas incontro” della diocesi di
San Severo, hanno proposto alla Regione, al Prefetto, ai Comuni e ad
altri soggetti istituzionali e sociali, un progetto di uscita dal
Ghetto e di chiusura dello stesso intitolato
“Diritti
in campo. Migranti cittadini attivi per la difesa della Costituzione
italiana. Dal Ghetto sotto Rignano Garganico all’eco-villaggio
multietnico e inclusivo”. Nella proposta si legge in neretto:
“Basta
con l’assistenzialismo, vogliamo auto-produrre, auto-sostentarci,
auto-costruire
[…] Basta con interventi che quietano falsamente le nostre
coscienze e derubano chi soffre”. E ancora: “Necessita
lottare contro la malavita organizzata e i comitati di affari,
incluse istituzioni e soggetti sociali conniventi, pur se in buona
fede, complici, […] non si può continuare ad attendere una nuova
estate in cui bagnare le nostre coscienze di un’acqua ‘ricca’
di affari e di bagni cosiddetti ‘chimici’ […] che anestetizzano
coi loro “odori” […] la nostra falsa coscienza”. Ed infine un
lungo trafiletto in neretto e in corsivo: “L’autocostruzione,
ora possibile con le persone migranti già formate dalle
organizzazioni suddette, assicura non un eco-villaggio a mera valenza
“alberghiera”, bensì una prospettiva sul modello di Riace in
Calabria, in cui ci si libera da condizioni di sfruttamento, di
illegalità diffusa, con modelli di autoproduzione a valenza
inclusiva tra e con persone migranti ei cittadini lavoratori
italiani.
Ciò eviterà progressivamente le “ondate” di migrazione connesse
a fenomeni di ghettizzazione, in presenza degli “anticorpi”
legali che si andranno ulteriormente ad insediare nelle campagne con
l’eco-villaggio e con modelli economici a kilometro zero. Con i
fondi che si sprecano ogni anno per l’acqua e i fantomatici bagni
chimici si può cambiare la vita di migliaia di persone, costruire
eco-villaggi, rompere con il caporalato, lo sfruttamento, valorizzare
la nostra agricoltura e l’indotto! ”
Fra
le altre cose, era stato proposto di far chiudere il Ghetto di
Rignano nei periodi invernali proprio per prevenire i problemi che
oggi stanno emergendo con la decisione di smantellarlo all’inizio
dell’estate, quando il numero di migranti è già notevolmente
aumentato.
Ma
la Regione nell’aprile del 2014, 6 mesi dopo quell’appello,
delibera lo smantellamento del Ghetto e il trasferimento nel numero
previsto dei migranti in 5 tendopoli proprio durante l’estate.
Perché dunque non provvedere proprio durante la stagione fredda, per
un numero ridotto, e considerando le richieste del suddetto appello?
Peraltro,
all’inizio si parlava di 3 tendopoli da installare nei luoghi più
vicini alle imprese che assumono. Oggi si parla di 5 tendopoli in
luoghi ancora de definire in una contrattazione aperta con gli
pseudo-delegati del Ghetto che rivendicano una tendopoli vicino
Foggia!
Si
sarà dunque compreso che la questione del Ghetto di Rignano nella
provincia di Foggia, se approfondita, non può non soffermarsi sulle
responsabilità delle istituzioni nell’ignorare tanta passione
civile dal basso e nell’incentivare invece i disagi con la sua
strana pianificazione dall’alto. Che oggi la Regione Puglia voglia
smantellare il Ghetto e allestire 5 tendopoli di emergenza, più che
farci stupire ci conferma ulteriormente l’ambiguità delle sue
propensioni, perché, come è emerso dalla presente ricostruzione,
progetti più intelligenti e meno dispendiosi di chiusura del Ghetto
e di sviluppo sono stati proposti ancor prima che la Regione si
decidesse a pensare e ad agire una soluzione.
Inoltre,
non bisogna lasciare credere che la situazione di questo territorio
sia così eccezionale rispetto alla situazione nazionale. Senza
dubbio, la vastità delle campagne del Tavoliere e la sua
superproduzione agricola favoriscono un maggiore concentramento degli
schiavi migranti in Capitanata, ma le problematiche concrete della
gente e le dinamiche strutturali del contesto socio-istituzionale che
cerca di risolverle, sono le medesime che si possono osservare negli
altri centri nevralgici della tratta degli schiavi nella penisola.
Ovunque le istituzioni italiane, in materia di immigrazione, sono
lente nella comprensione dei problemi reali, sono furbe e non fanno
mai niente senza un proprio tornaconto. D’altra parte, quando
qualche cosa di buono vogliono fare, trovano resistenze di ogni
genere nella base sociale a cui le loro buone azioni si rivolgono,
perché nessuno si fida di loro. Persone che per tanti anni si sono
sentite abbandonate e ingannate (e non parliamo soltanto dei
migranti), come potrebbero avere fiducia in loro? Oggi la nostra
democrazia è in pericolo non tanto per il passivismo delle
popolazioni, come recita il copione dell’ideologo di turno, ma
soprattutto perché nella stragrande maggioranza dei casi le
richieste dal basso o non sono ascoltate o sono manipolate e
strumentalizzate dalle istituzioni, sia a livello locale sia a
livello nazionale. Inoltre, i conflitti passano per le persone in
carne ed ossa e ciascuna di queste persone è situata in un sistema
di relazioni. Alcune finiscono nel sistema della criminalità
organizzata che, come si sa, è parte integrante di un sistema
mafioso-clientelare più vasto che influenza e interagisce con le
istituzioni. Ma, la causa di questa malattia che da sempre inficia la
nostra società e le nostre istituzioni, non sta forse proprio
nell’incapacità cronica all’interno delle istituzioni di creare
le condizioni giuste per combatterla e soprattutto prevenirla?
A
noi sembra perlopiù che negli ultimi anni le istituzioni abbiano
delegato la società civile e le associazioni a combattere questo
cancro. Il ghetto di Rignano Garganico è un crogiuolo di illegalità,
ma senza ombra di dubbio, queste illegalità come in ogni dove, sono
il riflesso delle relazioni interne alla nostra sovrastruttura
istituzionale sempre meno democratica, dei “ghetti” che si
formano nelle maglie di questa catena infinita di relazioni marcite a
furia di non intervenire con le giuste procedure democratiche. Senza
dubbio, fino a quando non si approfondisce l’analisi di questi
sistemi di relazioni marce, difficilmente potremmo risolvere vecchi e
nuovi conflitti. Nel frattempo, se la Regione Puglia sogna di
risolvere i conflitti odierni riguardanti il Ghetto di Rignano con le
tendopoli, noi evidentemente, sogniamo che lo smantellamento del
Ghetto sia una fase preliminare per gestire con una struttura di
assistenza più progredita l’ordinaria emergenza della stagione, a
cui seguirà l’immediato start-up del progetto di auto-costruzione
e auto-sufficienza che senza dubbio darà un ottimo slancio a questo
territorio. Solo in questo modo, evidentemente, si riuscirà a
placare il desiderio di liberazione e il sogno rivoluzionario di
questo movimento guidato dai principi dell’autodeterminazione e
dell’auto-sufficienza, il loro bisogno di riscatto dalle violenze e
dalle ingiustizie che subiscono ogni giorno da tanti anni. Solo in
questa prospettiva i vecchi conflitti non ne produrranno nuovi. Solo
in questo senso ci sembra lecito sognare.
Foggia,
17 maggio 2014
Antonio
Fiscarelli
Per
approfondimenti:
“Fuori
dal “Belleville”
Trailer
, di Francesco Bellizzi 2014: