Chi siamo

Come fare il 1° Marzo 2014

Bakeca

Contatti

Alina Diachuk, la sua morte servirà a qualcosa?

lunedì 3 settembre 2012



Il suicidio della giovane ucraina ha scoperchiato un pentolone di pratiche illegali al commissariato di Villa Opicina. Il punto sull’inchiesta.
Ricordate Alina Diachuk, la ragazza ucraina morta suicida nel commissariato di Villa Opicina a Trieste il 16 aprile scorso? I giornali  ne hanno scritto imediatamente a ridosso dell’episodio, in alcuni casi ricamando inutilmente sulla sua vita privata. Il dato obiettivo e rilevante era che la ragazza, appena uscita dal carcere e in attesa del provvedimento di espulsione, in quella cella non avrebbe dovuto esserci: non c’erano elementi per trattenerla. Le indagini fecero emergere subito un altro dato obiettivo e rilevante: il trattenimento illegale dei migranti, nel commissariato di Opicina era una prassi consolidata. Tra le carte di Carlo Baffi, allora responsabile dell’Ufficio Immigrazione di Trieste, adesso indagato per sequestro di persona e omicidio colposo furono trovati  materiali nazifascisti e testi antisemiti. Negli uffici è stato sequestrato invece un registro che documentava di tutto punto i trattenimenti illegali. La morte di Alina ha evidentemente scoperchiato un vaso di pandora, ricolmo di abusi e violazioni perpetrate da chi la legge dovrebbe farla rispettare. A distanza di qualche mese, Corriere Immigrazione ha deciso di tornare sulla vicenda. Troppo spesso, infatti, i casi di cronaca vengono “abbandonati” per seguire nuove notizie e così si rischia di perderne il senso.
Le indagini della Procura di Trieste, coordinate dal pm Massimo De Bortoli, hanno dunque portato alla luce altri casi di migranti illegalmente trattenuti da agosto 2011 ad aprile di quest’anno. Inizialmente si parlava di 49 persone. Questo numero, dopo ricerche più approfondite, pare essersi ridotto.  Prima la Uil-Polizia, per bocca del segretario provinciale Daniele Dovenna, poi lo stesso Carlo Baffi, hanno giustificato l’operato della questura citando una circolare ad uso interno emanata anni fa da un questore e poi riconfermata dai suoi successori. «Sono certo», ha dichiarato Baffi al quotidiano di Trieste Il Piccolo, «di aver fatto applicare quanto aveva stabilito una circolare firmata 10 anni fa dall’allora questore Natale Argirò. Abbiamo sempre agito in questo modo e né avvocati, né magistrati hanno mai avuto qualcosa da ridire». La circolare in questione sarebbe servita ad aggirare un problema logistico: dal venerdì pomeriggio alla domenica, infatti, gli uffici del giudice di pace (competente in questo caso per il convalidamento dei provvedimenti di trattenimento e di espulsione degli stranieri) rimangono chiusi.
La difesa di Baffi, così come le parole di Dovenna, contengono più di una contraddizione. Sembra non vero che a Trieste “né avvocati, né magistrati abbiano mai avuto qualcosa da ridire”. A Corriere Immigrazione, risulta che almeno un avvocato triestino (in un momento precedente alla morte di Alina) qualcosa da ridire l’abbia avuto, e che le sue richieste siano state pure prese in seria considerazione. Accortosi in tempo che un suo assistito era stato rinchiuso arbitrariamente in commissariato, ha prontamente inviato un fax alla questura contestando l’illegittimità dell’atto. Risultato: il migrante era stato rilasciato immediatamente. Perché  Baffi, così convinto della liceità del suo operato, non ha impedito (o ha permesso) la liberazione di questa persona? Corriere Immigrazione avrebbe voluto chiederglielo, ma il suo legale, Paolo Pacileo, ha risposto che un’intervista non sarebbe stata possibile. A proposito della circolare Argirò è inevitabile chiedersi come mai  la Uil-Polizia abbia deciso di “denunciarla” dieci anni dopo la sua emanazione. Il problema prima non sussisteva?
In Procura si tende a ridimensionare  la portata della circolare: aveva un contenuto troppo generico e non può in ogni caso rappresentare un alibi di fronte a reiterate violazioni della legge. L’attenzione rimane concentrata sulle responsabilità personali, in primo luogo quelle di Baffi. Ma un qualche ordine dall’alto deve esserci pur stato. Altrimenti non si spiegherebbe la sfrontatezza di quei registri in cui veniva segnato tutto: gli ingressi, le uscite, addirittura la consegna dei pasti dati. Come se trattenere discrezionalmente i migranti  fosse la cosa più normale del mondo.

http://www.corriereimmigrazione.it/ci/2012/09/alina-diachuk/
Luigi Riccio

La fontana del fico e le (troppe) foglie di fico


Lo sfruttamento dei braccianti in Basilicata ha una lunga tradizione. Un breve excursus, dalla riforma agraria del ’52 al caporalato etnico contemporaneo
Per giungere nella zona della Basilicata dove i migranti raccolgono i pomodori si percorrono per lungo tratto deserte colline gialle e brune. Nei campi appena mietuti frequenti sono i casolari decrepiti. Ogni tanto ci si imbatte in una macchia di verde, è segnale che nei pressi vi è un abbeveratoio da cui sgorga acqua fresca e potabile. Colline arse, casolari abbandonati e fontane non sono i soggetti di una cartolina lucana, ma elementi chiave per comprendere la storia delle campagne della Basilicata. Dal latifondo di un tempo ai braccianti migranti di oggi: una storia di sfruttamento e di lotte.
Ce la racconta in breve Gervasio Ungolo, fondatore insieme con Bernardo Bruno dell’Osservatorio Migranti Basilicata.
Fin dall’inizio del ‘900 i poveri contadini del Mezzogiorno protestavano e occupavano le terre dei grandi proprietari. A seguito della riforma agraria del ’52 parte dei latifondi fu espropriata, la terra tolta ai ricchi e venne sezionata in piccoli poderi, su ciascuno fu eretto un casale e piantato un mulino per estrarre l’acqua del sottosuolo. Ma i contadini vinsero la loro battaglia quando era oramai troppo tardi: l’economia stava cambiando e quei casali furono presto abbandonati. Città e fabbriche promettevano maggior fortuna della parca vita rurale.
La Comunità Europea dovette introdurre dei contributi per convincere gli agricoltori a persistere nel loro mestiere. Ma quella che poteva essere una buona idea prese una brutta piega. L’agricoltore si trovò intrappolato in un sistema altamente collusivo da cui è assai difficile districarsi. Da una parte multinazionali e grande distribuzione impongono agli agricoltori di vendere il loro prodotto a prezzi sempre più stracciati. Dall’altra cooperative e consorzi premono affinché l’agricoltore produca fatture false per raggiungere le quote richieste dall’Europea, pena la perdita dei contributi dell’Unione necessari alla sopravvivenza delle aziende, visto il deprezzamento degli ortaggi e della frutta. Qual è la prevedibile conseguenza di questo meccanismo? Non certo una rivolta verso i poteri forti dell’economia e della politica. E ben più facile, sicuro e redditizio scaricare la disfunzione del sistema sull’anello più debole: i braccianti. Ciò significa che paghe e diritti dei raccoglitori divengono sempre più leggeri.
E mentre l’economia agricola assumeva tale tristo profilo, l’Italia iniziava ad essere terra d’approdo per gente in cerca ed in fuga. La carenza di manodopera agricola fu presto soddisfatta dall’arrivo di migranti che non temevano il duro lavoro di campagna. Non solo, ma lo status giuridico di straniero venne modellato da politica e diritto in modo straordinariamente utile allo sfruttamento lavorativo, rendendo l’immigrato regolare – e ancor di più l’irregolare – privo di alcun potere negoziale. Siamo alla metà degli anni ’80 e nei pressi di Palazzo San Gervasio, vicino alla Fontana del Fico, si crea il primo accampamento di migranti stagionali. Perché proprio a Palazzo? Perché è un territorio ricco di fontane pubbliche e, se il compenso del tuo lavoro non ti permette di prendere una casa in affitto, sei costretto ad accamparti e occorre avere l’accesso all’acqua.
Nel periodo della raccolta i casali abbandonati tornarono ad essere abitati: decrepiti e pericolanti per come erano, senza luce né acqua corrente. Il comune di Potenza ha disposto alcune cisterne in prossimità dei casali che la Caritas periodicamente riempie, ma sono insufficienti alle necessità di tutti i lavoratori stagionali. E allora si vedono migranti con i bidoni d’acqua sulla testa che attraversano le assolate colline come in remoti villaggi africani. Ma siamo in Europa e la gran parte dei migranti l’acqua corrente l’aveva anche in Africa.
In Basilicata, come in molte altre campagne d’Italia, i braccianti con un contratto di lavoro sono pochissimi e le giornate di lavoro dichiarate sono ben inferiori a quelle effettivamente lavorate. Lo si capisce facilmente facendo il confronto con il prodotto raccolto. Ma c’è accondiscendenza verso lo sfruttamento del lavoro: durante la raccolta i controlli sono estremamente laschi.
Le cose cambiano appena finisce il periodo del raccolto, l’Osservatorio migranti della Basilicata registra una sorta di caccia al clandestino: controlli a tappeto per sgombrare rapidamente il campo da gente che oramai non serve più. Si badi i controlli si accaniscono sempre sull’anello più debole: sui braccianti, mentre datori di lavoro che non regolarizzano e caporali generalmente la fanno franca. Ci si chiederà quanto sia remunerativo il lavoro di raccoglitore nelle campagne lucane. I braccianti ci dicono che non è semplice calcolarlo perché il lavoro viene pagato a cottimo (anche questo è illegale), l’unità di misura è il cassone che vuol dire quasi un metro cubo di pomodori raccolti. Fino a qualche anno fa un cassone era pagato 5 o 6 euro, poi il prezzo si è ulteriormente contratto fino a giungere ai 3 euro di quest’anno. E in oltre non si lavora sempre, un gruppetto di ragazzi sudanesi ci spiega che l’anno scorso erano riusciti a lavorare solo 10 o 15 giorni in un mese. Infine c’è la lauta cresta del caporale, così se ti porti 400 euro dopo un mese di fatica e umiliazione è grassa.
I migranti sono spesso accusati di concorrenza sleale nel procacciamento di un impiego perché accettando condizioni di lavoro aberranti contribuirebbero a ridurre i diritti dei lavoratori dipendenti. Sia chiaro che non c’entra niente la cultura d’origine, né esistono geni che fanno propendere alla schiavitù, nemmeno l’eventuale povertà del paese d’origine è una ragione sufficiente che spiega perché molti migranti finiscono per lavorare per pochi euro e con zero diritti. È la posizione giuridica, costruita dal legislatore con il beneplacito di politica ed economia, che rende i migranti altamente ricattabili e soggiogabili. E non solo dal datore di lavoro ma da chiunque legalmente e illegalmente intenda lucrare sulla loro debolezza sociale: caporali, sedicenti filantropi, padroni di casa e avvocati malandrini che offrono servigi scadenti o fasulli a prezzi esorbitanti. E così allo sfruttamento legalizzato si somma lo sfruttamento illegale, entrambi intollerabilmente tollerati.
Clelia Bartoli