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Come fare il 1° Marzo 2014

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Ghetto out, Ghetto in, Ghetto off! Vecchi e nuovi conflitti di Capitanata

venerdì 30 maggio 2014

Uno sguardo trasversale


Restare per cambiare, cambiare per restare”.
Motto originario di ART VILLAGE -San Severo


Si ritorna a parlare del Ghetto di Rignano Garganico, in provincia di Foggia, emblema della schiavitù moderna made in Italy, almeno quattro lustri di tratta degli schiavi!
Scandalizzarsene? E perché mai? Dopo Auschwitz tutto è possibile.
Questo “regno dell’illegalità”, come l’ha definito l’assessore alle politiche giovanili, alla trasparenza, alla legalità e all’immigrazione della Regione Puglia, Guglielmo Minervini, alla riunione tenutasi alla Prefettura di Foggia il 13 maggio scorso con alcuni “presunti” delegati del Ghetto, i sindacati e il mondo associazionistico, non è un’eccezione alla regola né qui in Capitanata, né nel resto della penisola, né altrove. Dunque, nemmeno possiamo meravigliarci se la Regione Puglia abbia deciso di smantellarlo definitivamente, secondo quanto definito nel “piano di azione sperimentale per un’accoglienza dignitosa e il lavoro regolare dei migranti in agricoltura, Capo free –Ghetto off” deliberato lo scorso 2 aprile (B.U. Puglia 16-04-2014), e se proprio adesso che la task force dell’assessore Minervini è pronta ad agire, e che l’annuale Carovana antimafia di Libera si sia decisa a passare da queste parti, si sollevino rivolte di caporali e/o soggetti definiti tali, che su quel Ghetto hanno fatto la loro fortuna, verso chi l’idea di farlo chiudere aveva cominciato a proporla attivamente già almeno dal settembre 2012 con il progetto “Ghetto Out”: i senegalesi Mbaye Ndaye e Papa Latyr Faye (alias Hervé), insieme a Tonino D’Angelo, responsabile di Art Village di San Severo, e il supporto di Libera, della CGIL-FLAI di Foggia e delle cooperative “Pietra di scarto” e “L’Albero di pane”. Né, ci deve minimamente stupire se (e non bisogna avere paura di dire che) la Regione, dopo tanti anni di assenza o di inerte presenza in materia di immigrazione nella Provincia di Foggia, si trovi oggi costretta a dover trattare non proprio con la collettività varia ed eterogenea che popola il Ghetto di Rignano Garganico ma, appunto, con un grappolo di persone ambigue che si spacciano per suoi delegati sostenendo assurde ragioni a favore del suo mantenimento. Sì, perché le voci che circolano dentro e fuori dal Ghetto descrivono Ibou, Sonia, Abdullah, Alfa, Ibrahim e Ibahim, ossia gli interlocutori principali dell’attuale contrattazione con la Regione, come quel tipo di soggetti attraverso cui si realizzano le pratiche di mediazione tra lavoratori e imprenditori, l’organizzazione e la sistemazione dei migranti nelle baracche fatiscenti, i trasporti da queste ai campi, e quant’altro. Qualcuno li definisce “caporali”, ma questa categoria sembra troppo ristretta, o comunque non adeguata, per esempio, a Ibou e Sonia, che sussultano e si agitano nervosamente a udire tali affermazioni. Ibou, quello che ha pubblicamente negato le aggressioni del 30 aprile contro due giovani africani di Casa Sankara, Moussa e Karim, andati al Ghetto con un furgone a prendere i migranti che volevano partecipare all’assemblea prevista per l’arrivo della Carovana Antimafia; Sonia, la ragazza africana, madre di una bambina, che vive al Ghetto gestendo un emporio, un ristorante e dei posti letto dentro un rudere da circa dieci anni.

Ma se le parole ingannano facilmente, i fatti saranno più persuasivi.
Il 7 maggio 2014, durante la riunione tenutasi al Ghetto con gli stessi attori, in mezzo a quel centinaio di persone -tra africani, esponenti delle varie associazioni e dei sindacati- che circondavano l’équipe di Minervini, diversi soggetti schierati dietro il grande cerchio inveivano e imprecavano contro alcuni esponenti di Casa Sankara e Art Village, impedendo loro di prendere parola. In particolare ringhiavano contro Mbaye, coordinatore di Casa Sankara e principale promotore di “Ghettto out”, ma la loro rabbia si diffondeva apertamente contro chiunque essi confondessero per operatori di Art Village, Casa Sankara, Libera e, insomma, contro la rete umana partecipante a questa rivoluzione nonviolenta che in Capitanata si sta svolgendo almeno da un paio d’anni sotto l’indifferenza dei mass-media e delle istituzioni nazionali. A nessuno che fosse associato a questi gruppi, è stato permesso di prendere parola, compreso al sottoscritto. Ma, bando ai rammarichi, scriviamo appunto per capire il perché di tanta tensione, agitazione, aggressività, violenza, tanto ribollire e tante maldicenze verso chi da anni lavora all’emersione dei casi di schiavitù e le tante e disperate situazioni di illegalità non solo nel Ghetto di Rignano.
Sia Ibou, sia Sonia, durante questa assurda riunione, negavano apertamente che al Ghetto ci siano caporali e si svolgano attività illegali di vario genere (negli ultimi anni si sente parlare dell’aumento della prostituzione, dello spaccio degli stupefacenti e del commercio delle armi legato a clan mafiosi oriundi), e mentre il primo urlava a piena voce che le aggressioni del 30 aprile sono state inventate per mettere in cattiva luce il Ghetto (lui che dice di esserci arrivato solo un anno fa), un gruppo di africani, staccandosi da vari punti della canea generale, si è precipitato contro Mbaye e gliene ha date di santa ragione, tanto che la stessa riunione si è dovuta interrompere, perché tutti sono dovuti intervenire per fermare questo eccesso di follia. Un episodio che non ha avuto molta risonanza nei commenti del giorno dopo, sebbene Art Village e Libera abbiano pubblicato la sera stessa un appello di solidarietà per Mabye, come avevano fatto per le aggressioni di Moussa e Karim. Come dire, tutto bene quel che finisce male! Ma che si voglia tacere su questa ennesima aggressione è comprensibile, perché chi lavora da tanto tempo in queste situazioni, sa quanto è facile trovarsi in pericolo e tende, ora che la Regione si è decisa a intervenire, a valorizzare ciò che di positivo si può trovare. E se ne trova, è vero!

Infatti, il 13 maggio, alla Prefettura di Foggia, le cose sono andate decisamente meglio e, bisogna dirlo, proprio grazie all’assessore Minervini, alle sue capacità diplomatiche e maieutiche, pur entro i limiti evidenti circa la conoscenza della pluralità delle problematiche connesse al Ghetto che ha potuto però approfondire grazie alla mediazione della rete già esistente. La fantomatica delegazione del Ghetto, i cinque che giorno 7 avevano lasciato i nomi a Minervini (più uno auto-invitatosi, e non vi diciamo chi!), hanno cominciato a ritrattare le proprie affermazioni, nel coinvolgimento emotivo prodotto da questa tavola rotonda speciale divisa in due: da una parte, i rappresentanti della CGIL-FLAI di Foggia e della rete associazionista che sostengono la rivoluzione sankariana, dall’altra i rappresentanti di CISL, ANOLF e il padre scalibriniano Arcangelo Maira -migrante anche lui in un certo senso, essendo nato in Sicilia e cresciuto in Svizzera- che opera nel Ghetto da qualche anno con il progetto “Io ci sto”, diventato in seguito “Ghetto vivibile”.
In questa vera e propria esperienza di dialogo - che cerca di mettere in pratica i principi della risoluzione nonviolenta dei conflitti pur condizionata dall’assenza di interpreti-, Sonia arriva anche a chiedere “scusa della violenza” scatenatasi alla riunione scorsa e, sotto la pressione maieutica di Minervini, che chiede ai ragazzi del Ghetto di non esprimersi “in questa sede” in nome della collettività ma solo “a titolo personale”, finisce per ammettere di svolgere lei stessa “attività illegale”. Una vera e propria confessione, carica di un’emotività indescrivibile, da fissare nel tempo perché il suo significato rischia rimanere indecifrato nell’insieme degli sviluppi e dei tanti colpi di scena di questa nuova riunione. Fondamentale rivelazione poiché, tra gli obiettivi principali di Minervini, in armonia con i desideri del movimento di liberazione costituito da Casa Sankara, Libera, Art Village e CGIL-FLAI, c’è quello di garantire per “ciascuno” un passaggio “quanto più sereno” dalla condizione di schiavitù a quella di un ordinario essere umano, con carte in regola per lavorare e garantirsi un futuro, un percorso di legalità molto diverso da un mero discorso assistenzialistico.

Come si sarà compreso, la problematica principale del Ghetto di Rignano oggi si gioca su una pluralità di aspetti difficilmente sintetizzabili: da una parte l’esigenza di rompere, in un punto preciso, questa lunga catena che tiene legati migliaia di esseri umani a una condizione di schiavitù da almeno un ventennio, “spezzare l’anello”, come dice Minervini stesso, di questo sistema organizzato di illegalità che soggioga anche psicologicamente le vittime ai loro carnefici, ossia i datori di lavoro e i caporali, questi ultimi essi stessi vittime e carnefici; da cui, la necessaria pianificazione per la transizione dalla condizione di illegalità a quella di legalità per centinaia di migranti, almeno 1000. (Ma, appunto, con procedure andranno a garantire la buona riuscita di tale transizione?) Dall’altra parte, una pluralità di visioni e di concezioni, una problematica di diversità di approcci e modi, di mentalità e, al limite, di etiche, da parte dei vari attori sociali coinvolti in questa avventura: laicismo e religiosità, la dicotomia principale alla base di due concezioni diverse del mondo e dell’esistenza, cittadinanza attiva e carità, autodeterminazione e assistenza, denotanti due modi diversi di concepire la reciprocità e l’Altro; politica dal basso e politica dall’alto, volontariato e lavoro retribuito, lavoro regolare e lavoro in nero, legalità e illegalità.

Ma, appunto, in che modo questa pluralità si organizza intorno all’obiettivo di smantellare il Ghetto di Rignano entro il primo luglio, come prevede di fare la Regione? E non ci sono forse altri obiettivi? Ci sono e sono consequenziali a questa prima tappa? Oppure ci sono e sono le consequenziali perché pre-esistono ad essa?
Niente è chiaro e non è semplice oggi fare il punto sui conflitti emersi nelle ultime due settimane e quelli che possono ancora emergere intorno alla questione del Ghetto di Rignano. Se non altro perché questa faccenda non riguarda solo i migranti che lo occupano ogni anno, ma anche il mondo associazionistico, cioè operatori, laici e credenti, anch’essi incatenati a una forma di schiavitù, quella derivante dalla loro scelta, gli uni sopraffatti dal desiderio di autodeterminazione, gli altri dal bisogno di carità, tutti divisi tra l’imbarazzante e difficilissimo lavoro dal basso e le direttive provenienti dall’alto, sovente mascherate con abusi di termini come “partecipazione”, ad esempio. E senza contare la lacerazione interiore che in ciascuno di questi operatori e attivisti (specie in quelli con più anni di formazione e di esperienza) genera la consapevolezza che su entrambi i fronti, verso le istituzioni quanto verso le persone, si sia laici o credenti, occorre un lavoro di contrattazione il quale, com’è risaputo, è solo una fase temporanea di un lungo processo, e non si può mai essere sicuri che termini in una pacificazione, anche quando è bene organizzata - figuriamoci quando non lo è! A maggior ragione se il conflitto con cui si ha a che fare in questo territorio è profondo, cioè da emergenza sociale subentrata un giorno indefinito nel passato si è fatto costume, mentalità, abitudine, tradizione, passiva consuetudine, inerte presente senza memoria, senza identità.

E’ in rapporto a questo passato rimosso, violento e contraddittorio, evoluzione di dissidi sociali ed esistenziali mai mediati, scontri sommersi mai analizzati, che si muovono le nostre prime interrogazioni.
Perché la Regione ha preso solo ora questa nobile decisione di smantellare il Ghetto di Rignano? Non poteva farlo quindici anni fa? Dieci anni fa? Cinque anni fa?
No, non poteva. Quindici anni fa le istituzioni non sapevano o facevano finta di non sapere, e chi sapeva e voleva fare qualcosa per rimediarvi, non era ascoltato. Dieci anni fa, se sapevano, non potevano ancora far finta di non sapere. Nel 2006, a seguito dell’inchiesta “Io schiavo” di Fabrizio Gatti sullo schiavismo nelle campagne della provincia di Foggia, la Regione oramai sapeva tutto e non possiamo credere che non avesse gli strumenti, le capacità e i soldi per provvedervi. Questa inchiesta però sintetizzava una storia collettiva risalente ad almeno un decennio prima, una storia di omicidi e sparizioni di persone dovuti ai conflitti tra caporali e lavoratori.

L’attivista ivoriano Lassina Coulibaly, deceduto due mesi fa, aveva cominciato almeno dalla seconda metà degli anni ’90 a sensibilizzare l’opinione pubblica circa la presenza dei vari Ghetti intorno a Foggia e in particolare di quello di Rignano. L’uccisione di Hiso Telaray, il giovane albanese ventiduenne che osò ribellarsi al suo caporale e a cui Libera ha dedicato una delle prime annate di vino autoprodotto nelle terre confiscate alla mafia, risale a quindici anni fa (1999). Tantissimi casi, e anche tante denunce nel corso degli anni, non sono servite a far smuovere né i governi locali né quelli nazionali.
Soltanto nel 2007, se dobbiamo essere giusti, quando lo stesso giornalista scrive una nuova inchiesta per evidenziare l’inerzia delle istituzioni, solo allora la Regione si decide a inaugurare tre miseri alberghi diffusi, con non più di 100 posti letto in totale ed esclusivamente per braccianti stagionali con permesso di soggiorno, nell’intera provincia di Foggia considerata all’unanimità la provincia più marcata dal fenomeno dello schiavismo legato all’agricoltura, a causa della sua estensione e della sua fisionomia geo-economica (si vedano al riguardo anche gli ultimi dossier statistici sull’immigrazione). Il Ghetto di Rignano era ancora un capitolo lontano.

Si capirà dunque perché, sebbene speranzosi verso le promesse e gli ottimi propositi della Regione, non possiamo esimerci dal ricordare quanto abbia intensificato i conflitti, non soltanto al Ghetto di Rignano, la sua assenza o la sua poca presenza fino ad oggi. E senza tacere del fatto che uno di questi alberghi diffusi, esattamente quello dell’agro di San Severo, il più vicino al Ghetto di Rignano che oggi ospita Casa Sankara, è stato attivato soltanto nel luglio 2013, cioè 6 anni dopo l’inaugurazione, evidentemente sotto la pressione dell’iniziativa rivoluzionaria “Ghetto Out” e grazie alla posizione radicale assunta proprio dall’attuale coordinatore di casa Sankara, Mbaye, nei confronti della situazione del Ghetto di Rignano.

A noi sembra appunto che è partendo dalla storia di quest’ultimo che riusciremo a capire qualche cosa di ciò che sta succedendo intorno al Ghetto di Rignano, oggi. Dai verbali riguardanti le tristi vicende del 30 aprile, infatti, risulta che gli aggressori stavano cercando un’ “altra persona” ma nessuno spiega chi è questa persona. Dopo dieci giorni di ricerca, abbiamo capito che questa persona è Mbaye. Perché? Perché è lui il principale animatore di questa rivoluzione sommersa e di lotta attiva interna alla comunità degli africani contro ogni progetto tendente a voler conservare il Ghetto; perché è lui che dopo un mese di vita nel Ghetto, ha girato un video di denuncia e ha lavorato assiduamente per ospitare ad Art Village , il 7 ottobre 2012, l’“Assemblea dei migranti del territorio, con 250 africani di varia provenienza, con le loro rappresentanze etniche; ed è sempre lui che ha trattato con diversi caporali del Ghetto la possibilità di uscire dalla loro condizione di illegalità, trasformandosi così nel principale bersaglio di chi non ha interesse a smantellare il Ghetto, o meglio, ha interesse più che altro a mantenerlo. È lui il mediatore principale, anche se non ufficialmente riconosciuto, tra quel pezzo di comunità africano-foggiana ruotante intorno al Ghetto e la rete associazionistica e istituzionale che spinge verso lo smantellamento. E noi certo non faremo oggi lo stesso sbaglio che abbiamo fatto ieri con Lassina Coulibaly, di fare gli indifferenti verso le proposte e i gesti di chi, conoscendo meglio la propria comunità di appartenenza, ci può più facilmente orientare nella risoluzione dei suoi problemi e dei suoi conflitti interni, ma al contempo può diventare altrettanto facilmente vittima non solo dei caporali e del mondo della malavita organizzata, ma anche di giochi politici istituzionali.

Mbaye è un giovane senegalese arrivato in Italia non molti anni fa, nel 2007. Le sue tappe sulla penisola sono state brevi e rapide, come le sue scelte, si direbbe. Primi sei mesi a Milano e poi via verso il sud. Manfredonia, sei mesi; Foggia, tre anni; infine, San Severo. Perché San Severo? Per una mera questione finanziaria. A San Severo gli affitti costano meno (non è uno slogan, ovviamente). Mbaye è passato per l’itinerario tipico di un venditore ambulante senegalese immigrato in Italia: con il conflitto interiore tra vivere nell’illegalità o tentare di passare nella legalità. Alla fine del 2011, arrestano un suo connazionale per vendita di prodotti contraffatti, 12 anni di reclusione per la sua recidività. Mbaye si guarda allo specchio e si dice: “Ho una famiglia, ho delle responsabilità, non posso mandare all’aria tutto questo per dei CD contraffatti”. Il ragionamento, veramente, è più complesso: “Quando un senegalese arriva in Italia comincia con i CD. Lo acchiappano due tre volte e poi non è più libero, perché entra nella macchina giudiziaria. Il CD, inoltre, non può più dargli ciò che gli dava prima. E lui è costretto a restare nel paese che lo ospita più a lungo di quel che programmava. Allora comincia lo stress … e le tentazioni. Molte persone che in Africa non toccavano alcool, ad esempio, sono diventati alcolisti.”
Mbaye è musulmano e vuole di vivere e agire secondo i principi del Corano. Vive cercando di dare senso alla sua vita e a quella degli altri. Ma la sua sorte, come quella di ciascuno, non è governata esclusivamente da lui. Anche lui passa per un avvocato che gli promette permesso di soggiorno e lavoro, derubandolo di 7000 euro. Mbaye riflette a posteriori: “Lo Stato mi ha rubato i soldi. Non è giusto. Un cittadino ha diritto di essere ospite in un paese e quindi di avere il permesso senza pagare.” Mbaye non ha ancora messo a fuoco la faccenda e il caso vuole che un’amica gli faccia il nome di Art Village e di Tonino D’Angelo. Ora la nostra problematica sarebbe già più chiara, se sapessimo che cosa Art Village stava costruendo e aveva costruito in materia di integrazione e lotta allo sfruttamento al momento dell’incontro con Mbaye.

In effetti, con questo incontro si stabilisce sin da subito una relazione che va al di là del mero bisogno di assistenza, anche perché, sebbene Mbaye abbia trovato anche una casa ad Art Village, lui non è proprio quel tipo di persona che si lascia assistere. La prima prova della sua volontà di essere rispettato in questa società di aguzzini, bianchi e neri, con o senza laurea, la dà proprio in rapporto alla questione dell’avvocato. Tonino D’Angelo è là per questo, soprattutto dopo aver aperto una collaborazione assidua con Libera-Foggia, accogliendo nelle strutture di Art Village il presidio permanente dedicato a “Francesco Marcone”. Il loro dialogo è breve: “Se non hai paura, possiamo fare delle denunce” gli dice Tonino. “Io non ho paura”, risponde Mbaye. Ed è così che la storia di questo territorio comincia ad aprirsi in una direzione che forse molti attendono da anni di intraprendere senza riuscirci. Il giorno dopo, Tonino chiama Daniele Calamita della sezione CGIL-FLAI di Foggia e organizza un incontro con Mbaye. Anche questo giovane sindacalista foggiano lo mette subito sull’attenti. Mbaye ricorda: “Ricordo bene le parole di Daniele: dobbiamo agire con intelligenza, perché non sappiamo chi può stare alle spalle dell’avvocato. Gli ho detto che ero pronto a tutto e abbiamo fatto la denuncia.”
Nell’estate del 2012 Mbaye conosce il missionario scalibriniano padre Arcangelo sempre per il tramite di Tonino. Art Village ospita volontari della missione scalibriniana al Ghetto nell’ambito del progetto sopra menzionato “Io ci sto” da cui, come si diceva, nascerà “Ghetto vivibile”. Tonino gli propone di collaborare con padre Arcangelo: “Dobbiamo accompagnarli e nello stesso tempo tu farai la conoscenza del Ghetto”. Mbaye risponde: “Io ci sto!”
Quando arriva al Ghetto, però, resta scandalizzato della situazione che vi trova, l’esperienza che fa chiunque vi arrivi la prima volta. Il progetto dura due mesi. Lui riesce a resistere solo un mese. Sembrerebbe che si stia tirando indietro. Invece si ritira per meditare. Un giorno Tonino lo distoglie dalle sue meditazioni e gli dice: “I tuoi connazionali stanno soffrendo, dobbiamo fare qualcosa per aiutarli”. Allora Mbaye dal suo lungo silenzio pronuncia due parole magiche: “Se per voi aiutare significa portare acqua e bagni chimici in un luogo invivibile, io non ci sto!” Ed aggiunge: “Non aiutiamo le persone portando acqua e bagni chimici in posti orribili come quelli, dobbiamo invece aiutarli a uscirne”. Tonino, che da anni predica e pratica l’autodeterminazione, gli dà ragione o almeno non ha nessuna contro-ragione da opporgli.
Alla fine del progetto “Io ci sto”, viene organizzato un incontro con varie associazioni al centro interculturale Baobab di Foggia. Mbaye chiarisce apertamente la sua posizione. Intanto precisa che non ha niente da rimproverare all’operato di padre Arcangelo. “Lui ha fatto ciò che poteva per aiutare gli altri, ciò che a lui sembra giusto fare”. Per Mbaye, musulmano, il dialogo interreligioso è fondamentale, ma i problemi sono anche di altra natura. Scherzosamente dice: “Anche i volontari del campo ‘Io ci sto’ non ci stavano veramente, perché arrivavano alle 11.00 e andavano via alle 19.00 a dormire in albergo”, certamente non nel Ghetto. Per Mbaye aiutare non significa assistere. Anzi, per lui, di idee sankariane, non si tratta di un problema di assistenza ma di liberazione, ciò che esprime chiaramente la frase di Sankara posta al centro dell’albergo diffuso a lui dedicato: “Lo schiavo che non prende la decisione di lottare per liberarsi, si merita completamente le sue catene.
Dopo la riunione al Baobab, Mbaye, con il seguito di Art Village va al Ghetto a fare un discorso per esprimere apertamente il suo dissenso nei confronti di quella situazione e propone un’assemblea finalizzata a creare una grande associazione di migranti.

Il 7 ottobre 2012, dunque, ad Art Village si materializza l’“Assemblea dei migranti del territorio”, 250 partecipanti provenienti dal Ghetto, una giornata di dialogo organizzato e di convivialità, in cui ogni nazionalità aveva i suoi delegati e i suoi interpreti, prima esperienza del genere in questo territorio.
La questione principale ruotava intorno alla chiusura del Ghetto con la proposta di costruire un percorso di rivendicazione per ottenere 20 ettari di terra della Regione, che circondano l’albergo diffuso che l’anno seguente diventerà Casa Sankara. La discussione ha naturalmente portato alla luce le varie problematiche che il Ghetto chiama in causa, ma soprattutto la questione delle condizioni abitative, la questione dei caporali e delle relazioni criminose con i datori di lavoro corrotti e la rete a questi connessa. Ma, se moltissimi sono stati i consensi e gli applausi all’idea di chiudere il Ghetto e di unirsi per la richiesta di avere quelle terre, pare che le persone che invece non erano d’accordo, da quel giorno hanno cominciato a contrastare la proposta. Alcuni, ricorda Mbaye, insospettiti circa il suo ruolo, dicevano: “Questa persona che non ha fatto nemmeno 4 anni di Italia, come farà a far chiudere il Ghetto?” Nelle discussioni e nei vari momenti di confronto con Mbaye, i caporali dicevano : “Nessuno può far chiudere il Ghetto”. Mbaye rispondeva: “Io lo farò”.
È forse questa sua autodeterminazione così passionale e coraggiosa a esporlo facilmente a malintesi, a sospetti e a intimidazioni? Approfondendo la sua storia, abbiamo capito che Mbaye non ha mai chiuso gli occhi nemmeno nel suo paese. Comunque sia, se consapevolezza abbiamo del valore dell’impegno civile, noi non possiamo fare passare inosservato il dato di fatto che contro di lui oggi ci siano dei caporali ad alzare la voce e, all’occorrenza, le mani. Il seguito dell’operato di Mbaye fino a oggi in questo territorio, non è stato altro che un assiduo lavoro di approfondimento della condizione dei lavoratori migranti sotto i suoi vari aspetti, un lavoro di denuncia ma anche di valorizzazione delle risorse e delle idee positive che Mbaye è capace di individuare non solo fra i migranti ma anche fra quegli italiani che lavorano da anni sul tema dell’immigrazione in questo territorio. “Mi piacciono le persone propositive” tiene a precisare.

Dopo l’incendio di una trentina di baracche nel Ghetto, il 14 novembre 2012, Mbaye, gira con Hervé il filmato “Ghetto out” che mette in risalto la condizione di precarietà delle baracche del Ghetto di Rignano. Nel frattempo, sedici persone sono ospitate presso il Centro “L’Arena” e Art Village. L’occasione è propizia per Art Village anche per ribadire alle istituzioni l’urgenza di attivare la struttura dell’albergo diffuso di San Severo che, ricordiamolo, fu inaugurato nel 2007 e rimasto chiuso fino al 2013. E da questo momento “Ghetto out” comincia a svilupparsi nel progetto che diventerà “Casa Sankara”.
Ma un’altra esperienza è importante sottolineare per comprendere il tutto e il ruolo di Mbaye in questo tutto. Nello stesso mese, Mbaye è invitato dal centro interculturale Baobab a partecipare al Progetto “Ho costruito la mia casa”, finanziato col Fondo Europeo per l’integrazione dei cittadini di Paesi Terzi. L’iniziativa prevedeva una formazione, mediante la peer education, sulla ricerca di una casa, l’obiettivo principale quello di “favorire l’accesso all’alloggio da parte di cittadini stranieri”. Anche in questo caso Mbaye ne tira fuori una delle sue: “Il nome del progetto non coincide con il suo contenuto” e propone apertamente di usare una parte dei soldi destinati alla cancelleria e simili per l’acquisto di legno e paglia per “costruire” una vera casa. La proposta viene accolta. Così, con 6.000 euro viene auto-costruita la prima casa ecologica all’interno dei cortili di Art Village, “La casa contro il caporalato”.
Mbaye ci tiene a precisare i diversi elementi che hanno operato alla materializzazione di questo progetto. “L’idea è nata dall’osservazione delle baracche del Ghetto, dove abbiamo visto calpestata la dignità Nera”. Ma, nei suoi ricordi, un ritaglio particolare è dedicato al “confronto” con Domenico La Marca, il presidente della cooperativa Arcobaleno, tra i responsabili del progetto “Ho costruito una casa”. “Posso dire che abbiamo realizzato questo primo progetto di autocostruzione grazie a lui”, dice Mbaye, facendo di nuovo mostra delle sue capacità di valorizzazione e di riconoscimento. Il seguito potrebbe comprendersi da se stesso, se l’informazione fosse più concentrata su queste esperienze assolutamente all’avanguardia non solo in rapporto a questo territorio.

Il 24 luglio 2013 nasce Casa Sankara, ma il 2013 è anche l’anno della sartoria interculturale, della formazione di chef, agricoltori e artigiani, della costruzione di giardini e orti, della riqualificazione degli spazi interni ed esterni di Art Village e Casa Sankara. Percorsi che nascondono propositi e ideali fantastici: per esempio, dalle risorse finanziarie che riescono a mettere su per la formazione, che si rivolge anche a chi si può permettere di pagare, una cospicua parte è destinata alle persone con problemi più urgenti.
Dall’insieme di tutte queste iniziative e diverse altre prende forma quel progetto e quel movimento che andrà in certa misura a irrobustire anche l’attuale iniziativa della Regione. L’albergo diffuso Casa Sankara è di appena 36 posti (nelle ultime settimane sono stati divisi in due tutti gli appartamenti per ospitare 36 migranti degli ultimi sbarchi da Lampedusa), ma l’urgenza riguarda almeno un minimo di 500 persone da sistemare sia sul piano dell’abitazione sia sul piano della situazione lavorativa. Come abbiamo già accennato, intorno a Casa Sankara ci sono 20 ettari di terra e una palazzina di proprietà della Regione e i nostri protagonisti hanno appunto proposto di usarne due per auto-costruire 90 case in bioedilizia da 5 posti l’una e gli altri 18 per coltivare prodotti agricoli utili all’autosufficienza alimentare.
Questa idea dell’autosufficienza alimentare proviene da un’analisi di mercato in seno alla comunità senegalese che pare sia costretta, per esempio, ad acquistare il loro principale cereale, il “sankhal”, dal mercato cinese quando potrebbero auto-produrlo. Mbaye spiega: “Paghiamo ai cinesi 2,80 euro per 250 grammi di sankhal, quando potremmo acquistarlo direttamente dal Senegal a 0,40 centesimi al chilo”. Il sankhal si produce dal miglio con cui si fa anche il Sougouf e l’Araw, spiega Mbaye, altri due cereali che possono essere prodotti anche per il mercato. Dall’altra parte c’è un’analisi del mercato del pomodoro nella Provincia di Foggia svolta dalla CGIL-FLAI, mercato che i senegalesi, tra i primissimi africani venuti a riempirlo alle condizioni che sappiamo, conoscono bene oggi.
L’idea è semplice, come si vede. E su questa semplice idea sembra che la Regione ci stia riflettendo. A quanto pare hanno capito che è molto meno oneroso realizzare un progetto del genere che spendere un milione di euro all’anno per fare arrivare le cisterne d’acqua e i bagni chimici. Ma l’avranno capito veramente? Si dice che l’ambizioso quanto urgente progetto sia entrato nei tavoli di lavoro della Regione a partire da settembre 2013. Esso pare preveda anche la riqualificazione e il riutilizzo di due palazzine situate proprio all’interno dell’Albergo diffuso, l’una del Consorzio di bonifica e l’altra in capo all’assessorato regionale all’agricoltura della Regione. Ma naturalmente, non ci è dato sapere quando tutto ciò avrà inizio.

E ci si chiederà ora, che ne sarà di tutti quei migranti stagionali che arrivano solo per lavorare? Non spaventiamoci. La questione si era posta già allora e Minervini disse che stavano lavorando a “soluzioni miste”. Oggi una parte di queste soluzioni miste sembra appunto arrivata con il Progetto “Capo free –Ghetto off” che, come si diceva all’inizio, prevede lo smantellamento del Ghetto entro il primo luglio e il trasferimento dei migranti presenti in 5 tendopoli con servizi gestiti dalla protezione civile e dalle associazioni. La pianificazione non è soltanto appunto un modo per sgomberare “il posto più osceno, più inimmaginabile, più incredibile, più inaccettabile della Puglia”, come lo definisce sempre l’assessore nelle sue “cronachette” su Facebook, ma un’operazione che nasconde una precisa strategia nei confronti delle imprese che assumono in nero, le quali da una parte saranno “incentivate” dall’altra “saranno costrette ad assumere in modo legale”. Perché, appunto, come spiega lo stesso Minervini agli pseudo-delegati del Ghetto alla riunione in Prefettura i quali temono ripercussioni verso quella cinquantina di migranti che vi gestiscono attività commerciali non in regola con le norme, “le vere cause di questa schiavitù sono le imprese in primo luogo”.

Al fianco di Mbaye e Tonino, lavora anche Hervé, Ange e centinaia di altre persone di diversa nazionalità coadiuvati dalla compagine di Art Village di cui sono oramai parte integrante. Art Village nasce nel 2009 come centro di accoglienza e di inclusione sociale dell’ASL di Foggia, “dove convergono esperienze di diversi gruppi e associazioni sociali, sanitarie e culturali”. Insignito nel 2012 del premio alla sesta edizione per “Umanizzazione-Buone pratiche in Sanità”, indetto dall’ASL Lecce, e riconosciuto nell’ambito del “Sistema nazionale delle orchestre e dei cori giovanili”, Art Village è un cantiere aperto di arti e mestieri, “una storia che si va costruendo di gruppi umani” per affermare “la cultura e la pratica della legalità” su tutti i livelli. Di ciascun operatore di questo organismo vivente qual è oggi Art Village bisognerebbe raccontare la storia, come dice Tonino, perché ciascuno è protagonista di un percorso specifico che, incrociandosi con i percorsi altrui, ha contribuito quotidianamente alla sua crescita. È a loro tutti che dobbiamo principalmente questa svolta preziosa nella storia delle politiche di inclusione e della lotta contro le ingiustizie nella Provincia di Foggia. In queste pagine, abbiamo concentrato l’attenzione su Mbaye perché, come dicevamo, era lui il bersaglio principale delle aggressioni del 30 aprile, e perché la sua autodeterminazione in un territorio come questo ha spaccato in due un processo che fino a poco tempo fa sembrava irreversibile. Le sue idee e i suoi metodi hanno trovato un terreno fertile nella rete di Art Village connettendosi spontaneamente con le idee e i metodi di una persona come Tonino D’Angelo su cui, pur volendo, non si può tacere, considerata la sua lunga e preziosa esperienza nel territorio.
Tonino D’Angelo, è per professione un medico, ma per carattere, cultura, indole una persona difficilmente categorizzabile. Il suo universo intellettuale, si rispecchia nella fisionomia attuale di Art Village, dove eroi della politica così diversi tra loro come Giuseppe di Vittorio, Don Tonino Bello e Thomas Sankara convivono fantasiosamente con eroi dell’arte come Pasolini e il musicista educatore venezuelano Abreu, cui Tonino D’Angelo si ispira da diversi anni. Appassionato lettore di Aldo Capitini e attento osservatore e animatore della realtà di oggi in una delle province più malate di Italia, ricorda forse più un personaggio come Danilo Dolci, che amava costruire occasioni di partecipazione in cui arte, scienza e politica potessero cooperare per modificare le situazioni di emergenza e smuovere le istituzioni. Ma questa è solo una nostra impressione. Certo è che, prolisso nelle spiegazioni, spartano nell’agire, Tonino D’Angelo è quel tipo di personalità che, impegnato ogni giorno contro le ingiustizie del nostro sistema mediante la riflessione, l’analisi, la denuncia, la contrattazione, quando questi mezzi non funzionano, passa alla praxis adottando le strategie di lotta nonviolenta che la tradizione per fortuna ci ha lasciato. A lui forse dobbiamo un riconoscimento a parte.

Ora, la questione del Ghetto di Rignano sembrerebbe più chiara nella sua inevitabile complessità, almeno per ciò che concerne gli ultimi episodi da cui sono partite le nostre considerazioni. Conflitti nuovi si generano da vecchi conflitti rimasti per anni sommersi e irrisolti. Tuttavia non pochi aspetti restano dubbi su altri livelli della faccenda.
Nel 2012, gli amici del presidio di Libera “Francesco Marcone” e di LiberaAFRICA di Casa Sankara hanno lanciato una proposta di legge che, “ai sensi della normativa vigente in materia di mafia e criminalità organizzata” equipara tutti quegli “imprenditori agricoli che usano manodopera di persone migranti con o senza permesso di soggiorno, reclutandole e utilizzandole tramite il caporalato, ovvero con la ‘mediazione’ di ‘caporali’ sia del territorio che ‘migranti’, a veri e propri “mafiosi” (art 1.), ai quali andrebbe applicata “quanto previsto dalla normativa in materia di confisca e utilizzo dei beni confiscati alle mafie” (art. 2). Inoltre, questa proposta prevede che alle “persone migranti, con o senza permesso di soggiorno, e i lavoratori italiani, che abbiano denunciato la condizione di ‘asservimento’ ai caporali e agli imprenditori di cui all’art.1”, sia data assoluta “precedenza nell’assegnazione dei beni confiscati per il loro utilizzo sociale” e che i “migranti senza permesso di soggiorno che abbiano denunciato quanto di cui agli artt. precedenti, hanno diritto al permesso di soggiorno e all’inserimento in progettualità sociali di cui sopra” (art. 3).
Ma la Regione nel maggio 2013 stipula con l’Aquedotto Pugliese un protocollo di intesa “per la realizzazione di un Assessement Watersanitation negli insediamenti di immigrati impiegati nell’agricoltura stagionale della provincia di Foggia” (allegato C alla “Deliberazione Giunta Regionale 3 maggio 2013, n. 853 - Piano Triennale dell’Immigrazione 2013-2015"), dal quale si evince che, fra le 4 località in cui attivare i punti di prima assistenza igienico-sanitaria previsti per il 2013, insieme a “Cicerone, in agro San Marco in Lamis”, località “Masseria Tre Titoli, in agro di Cerignola” e “Palmori, in agro di Lucera”, è annoverato anche il Ghetto di Rignano, definito “località ‘Il Ghetto’, in agro di San Severo”, come se fosse compreso nel piano delle proprietà pubbliche, mentre il Ghetto al confine tra Foggia, San Severo e Rignano Garganico, sorge su “proprietà privata”. Il che, oltre a farci sorgere il fin troppo lecito dubbio che un’emergenza come quella del Ghetto di Rignano sia stata resa “stabile” nella sua piena illegalità, ci fa riflettere su un altro piccolo dettaglio: come da impegni presi con le Organizzazioni sindacali nel “Contratto Provinciale dei lavoratori agricoli”, non dovrebbero essere gli imprenditori agricoli proprietari di quella terra a provvedere all’acqua per i migranti? Non dovrebbero essere loro “a farsi carico di mettere a disposizione degli stessi il vitto ed un idoneo alloggio per tutta la durata della fase lavorativa e che, qualora sia richiesto, in base al credo religioso prevalente, sia destinato uno spazio al fine di poter adempiere ai loro rituali religiosi”?
Nello stesso protocollo di intesa, inoltre, all’articolo 4 si legge che la Regione, “per il tramite dell’Ufficio immigrazione” e con il supporto del “Genio Civile di Foggia, promuove attività di verifica e di ispezione presso i suddetti siti”. Ma, a oggi, non risulta che siano state effettuate queste verifiche ed ispezioni che avrebbero certamente condotto a un’inchiesta più precisa e probabilmente alla messa in moto della macchina giudiziaria nei confronti dei responsabili delle varie illegalità che si svolgono in quel luogo, diverse volte denunciate dai soggetti che oggi, non volendo più saperne di politiche di assistenza, si battono per l’autodeterminazione. Non possiamo, infatti, proprio dimenticare che oltre 1 milione di euro all’anno sono sprecati per portare acqua, bagni chimici e assistenza sanitaria nel periodo del lavoro stagionale in una proprietà privata che è stata chiamata “Ghetto” proprio per le condizioni di miseria in cui le persone sono costrette a vivere, un “zona franca” ma privata (e qualcuno ci dovrebbe ancora spiegare come ciò sia possibile) dove da sempre si registra una varietà di attività criminali su cui non è mai stata fatta una vera inchiesta, nonostante gli appelli e le denunce della rete costituitasi intorno ad Art Village: affitti di veri e propri ruderi, spaccio di stupefacenti, prostituzione, controllo malavitoso della manodopera, caporalato e sfruttamento schiavistico, che significa anche un mercato multimilionario, evasione fiscale e truffe che danneggiano anche gli imprenditori onesti (voci di corridoio parlano anche di un mercato internazionale di armi tra Foggia e i paesi dell’Est). E per quanto riguarda le condizioni igienico-sanitarie, difficile tacere sul fatto che i bagni chimici, appaltati a una ditta di Ariano Irpino (che si trova dall’altra parte della Provincia di Foggia), vengono ripuliti ogni 48 ore restando pertanto sporchi pressoché tutti i giorni, diventando pericolosi per la sicurezza e la salute non solo dei migranti, perché, intendiamoci, se scappa una epidemia non è difficile che si diffonda oltre il Ghetto considerato il via vai e lo scambio con i vari centri abitati nei dintorni e l’obbligata tratta Ghetto-Foggia (si è già mormorato in passato di un caso di “scabbia”, ad esempio, di cui si è preferito tacere per evitare il panico collettivo); inoltre, macellazione in loco di animali-cadavere di provenienza illecita, rifiuti, ancorché raccolti periodicamente, accumulati in tante piccole discariche a cielo aperto senza alcun reale controllo, diventando fonte di inquinamento e, al limite, di patologie, infine, le cisterne che accolgono l’acqua non risultano sempre pulite e la manutenzione prevista per legge è tutt’altro dall’essere davvero garantita.

In un appello lanciato nel settembre del 2013, i migranti riuniti nell’Associazione "Ghetto out-la voce dei migranti", la Cooperativa sociale “L’Albero del pane”, il Centro di accoglienza della ASL FG “Art Village”, l’Associazione “Libera-Associazioni-nomi e numeri contro le mafie”, la CGIL-FLAI, l’Associazione “Caritas incontro” della diocesi di San Severo, hanno proposto alla Regione, al Prefetto, ai Comuni e ad altri soggetti istituzionali e sociali, un progetto di uscita dal Ghetto e di chiusura dello stesso intitolato “Diritti in campo. Migranti cittadini attivi per la difesa della Costituzione italiana. Dal Ghetto sotto Rignano Garganico all’eco-villaggio multietnico e inclusivo”. Nella proposta si legge in neretto:Basta con l’assistenzialismo, vogliamo auto-produrre, auto-sostentarci, auto-costruire […] Basta con interventi che quietano falsamente le nostre coscienze e derubano chi soffre”. E ancora: “Necessita lottare contro la malavita organizzata e i comitati di affari, incluse istituzioni e soggetti sociali conniventi, pur se in buona fede, complici, […] non si può continuare ad attendere una nuova estate in cui bagnare le nostre coscienze di un’acqua ‘ricca’ di affari e di bagni cosiddetti ‘chimici’ […] che anestetizzano coi loro “odori” […] la nostra falsa coscienza”. Ed infine un lungo trafiletto in neretto e in corsivo: “L’autocostruzione, ora possibile con le persone migranti  già formate dalle organizzazioni suddette, assicura non un eco-villaggio a mera valenza “alberghiera”, bensì una prospettiva sul modello di Riace in Calabria, in cui ci si libera da condizioni di sfruttamento, di illegalità diffusa, con modelli di autoproduzione a valenza inclusiva tra e con persone migranti ei cittadini lavoratori italiani. Ciò eviterà progressivamente le “ondate” di migrazione connesse a fenomeni di ghettizzazione, in presenza degli “anticorpi” legali che si andranno ulteriormente ad insediare nelle campagne con l’eco-villaggio e con modelli economici a kilometro zero. Con i fondi che si sprecano ogni anno per l’acqua e i fantomatici bagni chimici si può cambiare la vita di migliaia di persone, costruire eco-villaggi, rompere con il caporalato, lo sfruttamento, valorizzare la nostra agricoltura e l’indotto!
Fra le altre cose, era stato proposto di far chiudere il Ghetto di Rignano nei periodi invernali proprio per prevenire i problemi che oggi stanno emergendo con la decisione di smantellarlo all’inizio dell’estate, quando il numero di migranti è già notevolmente aumentato.
Ma la Regione nell’aprile del 2014, 6 mesi dopo quell’appello, delibera lo smantellamento del Ghetto e il trasferimento nel numero previsto dei migranti in 5 tendopoli proprio durante l’estate. Perché dunque non provvedere proprio durante la stagione fredda, per un numero ridotto, e considerando le richieste del suddetto appello?
Peraltro, all’inizio si parlava di 3 tendopoli da installare nei luoghi più vicini alle imprese che assumono. Oggi si parla di 5 tendopoli in luoghi ancora de definire in una contrattazione aperta con gli pseudo-delegati del Ghetto che rivendicano una tendopoli vicino Foggia!

Si sarà dunque compreso che la questione del Ghetto di Rignano nella provincia di Foggia, se approfondita, non può non soffermarsi sulle responsabilità delle istituzioni nell’ignorare tanta passione civile dal basso e nell’incentivare invece i disagi con la sua strana pianificazione dall’alto. Che oggi la Regione Puglia voglia smantellare il Ghetto e allestire 5 tendopoli di emergenza, più che farci stupire ci conferma ulteriormente l’ambiguità delle sue propensioni, perché, come è emerso dalla presente ricostruzione, progetti più intelligenti e meno dispendiosi di chiusura del Ghetto e di sviluppo sono stati proposti ancor prima che la Regione si decidesse a pensare e ad agire una soluzione.
Inoltre, non bisogna lasciare credere che la situazione di questo territorio sia così eccezionale rispetto alla situazione nazionale. Senza dubbio, la vastità delle campagne del Tavoliere e la sua superproduzione agricola favoriscono un maggiore concentramento degli schiavi migranti in Capitanata, ma le problematiche concrete della gente e le dinamiche strutturali del contesto socio-istituzionale che cerca di risolverle, sono le medesime che si possono osservare negli altri centri nevralgici della tratta degli schiavi nella penisola. Ovunque le istituzioni italiane, in materia di immigrazione, sono lente nella comprensione dei problemi reali, sono furbe e non fanno mai niente senza un proprio tornaconto. D’altra parte, quando qualche cosa di buono vogliono fare, trovano resistenze di ogni genere nella base sociale a cui le loro buone azioni si rivolgono, perché nessuno si fida di loro. Persone che per tanti anni si sono sentite abbandonate e ingannate (e non parliamo soltanto dei migranti), come potrebbero avere fiducia in loro? Oggi la nostra democrazia è in pericolo non tanto per il passivismo delle popolazioni, come recita il copione dell’ideologo di turno, ma soprattutto perché nella stragrande maggioranza dei casi le richieste dal basso o non sono ascoltate o sono manipolate e strumentalizzate dalle istituzioni, sia a livello locale sia a livello nazionale. Inoltre, i conflitti passano per le persone in carne ed ossa e ciascuna di queste persone è situata in un sistema di relazioni. Alcune finiscono nel sistema della criminalità organizzata che, come si sa, è parte integrante di un sistema mafioso-clientelare più vasto che influenza e interagisce con le istituzioni. Ma, la causa di questa malattia che da sempre inficia la nostra società e le nostre istituzioni, non sta forse proprio nell’incapacità cronica all’interno delle istituzioni di creare le condizioni giuste per combatterla e soprattutto prevenirla?
A noi sembra perlopiù che negli ultimi anni le istituzioni abbiano delegato la società civile e le associazioni a combattere questo cancro. Il ghetto di Rignano Garganico è un crogiuolo di illegalità, ma senza ombra di dubbio, queste illegalità come in ogni dove, sono il riflesso delle relazioni interne alla nostra sovrastruttura istituzionale sempre meno democratica, dei “ghetti” che si formano nelle maglie di questa catena infinita di relazioni marcite a furia di non intervenire con le giuste procedure democratiche. Senza dubbio, fino a quando non si approfondisce l’analisi di questi sistemi di relazioni marce, difficilmente potremmo risolvere vecchi e nuovi conflitti. Nel frattempo, se la Regione Puglia sogna di risolvere i conflitti odierni riguardanti il Ghetto di Rignano con le tendopoli, noi evidentemente, sogniamo che lo smantellamento del Ghetto sia una fase preliminare per gestire con una struttura di assistenza più progredita l’ordinaria emergenza della stagione, a cui seguirà l’immediato start-up del progetto di auto-costruzione e auto-sufficienza che senza dubbio darà un ottimo slancio a questo territorio. Solo in questo modo, evidentemente, si riuscirà a placare il desiderio di liberazione e il sogno rivoluzionario di questo movimento guidato dai principi dell’autodeterminazione e dell’auto-sufficienza, il loro bisogno di riscatto dalle violenze e dalle ingiustizie che subiscono ogni giorno da tanti anni. Solo in questa prospettiva i vecchi conflitti non ne produrranno nuovi. Solo in questo senso ci sembra lecito sognare.


Foggia, 17 maggio 2014



Antonio Fiscarelli


Per approfondimenti:




Fuori dal “Belleville” Trailer , di Francesco Bellizzi 2014:
http://vimeo.com/82623897ghetto”, reportage di Altreconomia 158 (marzo 2014) a cura di Duccio Facchini https://www.youtube.com/watch?v=U_AjVXE2dHw


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