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sabato 22 maggio 2010

RECUPERIAMO IL SENSO DELLA STORIA E SMETTIAMO DI AVERE IL VUOTO DI MEMORIA

Come furono possibili il fascismo e il nazismo? Come iniziarono, quali furono i passaggi, e come fu possibile per la maggioranza delle persone seguire un percorso che a settanta/ottant’anni di distanza sembra totalmente assurdo?
Queste domande ci impegnano fare una seria riflessione su la storia che si ripete e soprattutto a cercare di recuperare il senso della storia.
Il senso della storia si recupera quando smettiamo di avere il vuoto di memoria.
La stessa risposta darebbero i vecchi partigiani.
Il fascismo fu possibile per piccoli passi di degrado che a poco a poco andarono a sostituire un senso comune e costruirono un quadro complessivo di “normalità” in cui furono gradatamente considerati leciti, corretti, tollerabili e, anzi, giustificati, il razzismo, la persecuzione, lo sterminio. Tutto questo fu possibile sotto gli occhi di tutti, quegli occhi che, come diceva Bertolt Brecht, si sono ripetutamente voltati, perché “tanto quello che accade non riguarda me”. Alla fine vennero a prendere non solo gli handicappati (non ci riguarda…), gli ebrei (non ci riguarda…), gli omosessuali (non ci riguarda…), i comunisti (non ci riguarda…), ma tutti quanti. Vennero a prendere la libertà di tutti e tutti si trovarono a vivere nell’orrore, in una società degradata fino a poterne avere vergogna per numerose generazioni a seguire.
Ebbene, che cosa stiamo vivendo ora? Non stiamo per caso, ancora una volta chiudendo gli occhi (tanto non mi riguarda…) di fronte alla tragedia quotidiana? Non stiamo per caso voltando la testa dall’altra parte? Non stiamo per caso raccontandoci una realtà di comodo che nasconde le contraddizioni intollerabili del nostro tempo? Chi sono i migranti, gli stranieri, se non la “categoria” che più sta impattando nell’inizio della degradazione della società in cui viviamo?
Moni Ovadia anni fa metteva in guardia dall’adozione di un atteggiamento superficiale verso le parole. Le parole non sono neutre. Se io sostituisco alla parola straniero o migrante la parola clandestino e se alla parola clandestino insistentemente attribuisco un significato negativo, quello di criminale, a poco a poco alimento il pre-giudizio. Se mi acquieto in visioni deliranti, volutamente strumentali, che vogliono gli italiani “brava gente” e che cercano il virus, l’agente inquinante (il capro espiatorio) in qualcuno o qualcosa al di fuori di “noi”, finisco col trovare un “altro”, un tempo l’ebreo, ora lo straniero (ma quello povero, si intende) a cui addossare colpe e nefandezze. Tutti ne avremo paura, con il conforto di un senso comune sempre più razzista. Se accetto il termine respingimento come azione legale, perfettamente lecita, di pulizia, salvaguardia, “legittima difesa”, dimenticando che la nostra Costituzione e la Carta dei Diritti dell’Umanità prevedono che si debba accogliere chi proviene da altri Paesi e verificare il suo stato di bisogno per accertare in primo luogo, se possa /debba offrirgli asilo, io muovo un passo verso una società razzista. Se io accetto che il mio Parlamento emani leggi razziste (e le ultime lo sono) e poi rifuggo alla responsabilità di ammetterlo, sono complice di una tragedia la cui portata potrebbero correre il rischio di misurare soltanto i nostri nipoti. Dobbiamo smettere con l’ipocrisia e ammettere che la maggioranza degli italiani permette che l’Italia abbia leggi razziali. E' vero che queste leggi toccano gli altri (loro) e di conseguenza la maggioranza degli italiani si gira dall'altra parte.
Non ci si rende conto, ad esempio, che la storia insegna che quegli altri (Loro)
contribuirono alla Resistenza e di conseguenza alla Liberazione, che festeggiamo ogni anno. Tanti soldati di paesi extracomunitari morirono in Italia, sotto il comando dei colonizzatori, per la libertà di Italia. Le cose che succedono in Italia in questi tempi rendono vano questo immenso sacrificio umano. A tal punto che ci si chiede: quali sono i valori (non monetari) per cui si vive in Italia?
Ottant’anni fa non furono i nazisti soltanto a precipitarci nell’orrore. Siamo gli stessi italiani di allora o avremo la capacità di aprire gli occhi su quello che sta accadendo? Dovremo rispondere alle generazioni future di come fosse possibile che i lager funzionassero oltre i confini dei campi arati o sapremo ammettere che i Centri di raccolta dei “clandestini” (ovvero quelli che diventano criminali per decreto dello Stato) sono (anche quello a pochi chilometri da noi, a Bologna), buchi neri in cui nessuno può entrare (nemmeno Amnesty International) e dove si calpestano quotidianamente i diritti più elementari? La Storia è ad un’ennesima svolta cruciale. Siamo tutti a bordo e tutti dobbiamo decidere la rotta. Nessuno si tiri fuori, specie chi ha il privilegio di rappresentarci nelle Istituzioni (locali e centrali).
Teniamo gli occhi ben aperti su quello che accade.
Perché ci riguarda.

(Marina e Wale, Comitato Primo Marzo Imola, 5 maggio 2010)

Etica minima

venerdì 7 maggio 2010

Un'altra iniziativa messa in atto dal Comitato Primo Marzo di Trieste contro la sanatoria truffa: stata preso un accordo con il quotidiano "Il piccolo" per publicare quattro articoli scritti da intellettuali locali (tra quelli che hanno firmato l'appello) a lo scopo di sensibilizzare la città sull'argomento.

ETICA MINIMA. SOGGETTO SENEGALESE (E COMUNQUE AFRICANO)

di Pier Aldo Rovatti

Il lavoro e l’immigrazione sono le due questioni in grado di far saltare il tavolo della società italiana. Quando poi si intrecciano, come accade ogni giorno e a ogni latitudine del nostro Paese, la miscela risulta esplosiva, pensiamo solo ai fatti di Rosarno.
È una miscela diabolica poiché vi si riversano tutti i veleni della cosiddetta anomalia italiana: la corruzione che inquina e talora raddoppia le istituzioni, il cinismo pubblico e privato, il razzismo spesso esplicito nella sua violenza, la furbizia dei potenti e di tutti i loro imitatori, un’idea perversa di italianità usata come bandiera ma che poi si riduce nei fatti a un desolante egoismo individuale.
Trieste è una città bellissima che non cambierei con nessun’altra, ma Trieste - a volte e non per caso - è anche il laboratorio dove alcuni aspetti della miscela che ho detto fanno le loro prove, attribuendo talora a questa città un ruolo poco invidiabile di avamposto. Mi riferisco alla cronaca di ciò che sta accadendo in fatto di ”emersione” del lavoro sommerso dei soggetti che chiamiamo ”badanti” o ”colf”.
Soggetti a cui la "sanatoria" ministeriale del settembre scorso dava appunto la possibilità di emergere regolarizzando la loro condizione di illegalità. Quello che è successo, e che sta succedendo da allora, ha assunto contorni inquietanti, una specie di beffardo imbroglio che si è trasformato in un subdolo meccanismo di espulsione per molti lavoratori immigrati che hanno creduto nella sanatoria e vi si sono affidati, in tal modo autodenunciandosi all'ufficio stranieri della questura.
Il Piccolo ha avuto il merito di fornire ai suoi lettori adeguate informazioni su tale beffa che testimonia clamorosamente il degrado dell'etica pubblica oggi in Italia: dagli articoli di denuncia di Paolo Rumiz (figlio di emigrante, come si firma, e parte in causa come datore di lavoro di un irregolare), all'appello di molte personalità del mondo culturale, alla nascita del movimento cittadino "primo marzo", al racconto dettagliato di alcuni tra i casi che si stanno verificando in questo periodo con il loro corredo di sottili violenze e patenti illegalità. Punte di un iceberg perché ce ne sarebbero tante altre di
storie da raccontare e denunciare, calvari personali allucinanti che si moltiplicano quasi ogni giorno.
Mi limito solo a ricordare che la sanatoria ministeriale, con l'intento apparentemente assai virtuoso di favorire l'emersione e la regolarizzazione, assicurava che «nelle more della definizione del procedimento lo straniero non può essere espulso», a meno che non si fosse macchiato di delitti pesanti (quelli che prevedono per la loro gravità una pena detentiva non inferiore ai cinque anni). Questa assicurazione è risultata illusoria nel momento in cui si è trattato di esaminare le domande di regolarizzazione (calcolate in 300mila sul territorio nazionale), ed è successo che lavoratori in buona fede, provvisti di contratto di lavoro, dopo aver pagato una cifra non così piccola (500 euro di multa più tutti i contributi previdenziali nel frattempo maturati), si sono visti equiparare a delinquenti comuni, respingere le loro domande, annullare ogni garanzia di diritto, avviare all'espulsione ed essere di fatto espulsi dal nostro paese. A loro carico, il semplice fatto di non avere ottemperato a un pregresso provvedimento di espulsione.
Ho parlato di un fenomeno vistoso e grave, di degrado dell'etica pubblica. Molti elementi concorrono a disegnarne il profilo: in primo luogo, la non certezza del diritto, un diritto prima affermato nel testo di legge e poi disatteso nelle pratiche locali, corretto in modo discutibile da una tardiva circolare, anzi alternativamente sostenuto e negato nelle
indicazioni ufficiali. Come se l'istituzione fosse un corpo molle che una volta dice e una volta disdice, affidandosi a una pluralità di canali e creando una sorta di cortina nebbiosa che permette ampi margini di manovra repressiva. Non sempre la scorrettezza delle procedure (per esempio, il modo improprio di comunicare l'eventuale respingimento della domanda di regolarizzazione, procedendo senza garanzie all'espulsione) ha permesso ai giudici di pace e alla magistratura di interporre effettivamente la tutela del diritto (e là dove ciò ha potuto accadere le sentenze sono state in genere favorevoli al lavoratore).
Questa "incertezza" del diritto, che ha tutta l'aria di essere stata costruita ad arte, come una forma duttile di repressione, va a braccetto con una diffusa cultura della "discriminazione" che ha dato il cambio all'apparente benevolenza della sanatoria del 2009, e che ora si palesa apertamente nelle varie note di servizio in una delle quali si può leggere, come identificazione del lavoratore lì in questione: «Senegalese (e comunque africano)».
D'altronde, la cultura della discriminazione in cui noi, oggi, siamo sommersi e dalla quale non riusciamo a emergere, era sotto gli occhi fin dalla stessa sanatoria governativa che isolava da tutti gli altri un gruppo di lavoratori stranieri da regolarizzare (le o i "badanti", appunto) con la motivazione dell'utilità sociale delle loro prestazioni. Sociale, ma anche personale - veniva da pensare -, considerando la presenza di queste figure assistenziali, certo nelle case di moltissimi italiani, ma presumibilmente anche nelle stesse di chi si preoccupava di varare il provvedimento.

I diritti dei piccoli "clandestini"

martedì 4 maggio 2010

Dall'Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione) arrivano due importanti comunicazioni che riuguardano il diritto all'istruzione e all'accesso ai servizi socio-educativi dei minori stranieri figli di cittadini stranieri irregolarmente soggiornanti.

La prima è una nota del Ministero dell'Interno in cui si afferma che "per le domande di iscrizione all'asilo nido dei minori stranieri non sussiste alcun obbligo
di esibire il permesso di soggiorno
"

La seconda invece è un comunicato del Prefetto di Torino in cui si informa che "il Ministero dell'Interno ha concordato con l'avviso espresso da questa prefettura
secondo cui alla luce delle norme vigenti, ed in particolare dell'articolo
38 del T.U.Immigrazione e dell'art.45 del D.P.R. 349/99, i minori stranieri
presenti sul territorio, indipendentemente dalla titolarità di un permesso
di soggiorno, hanno diritto all'istruzione
nelle scuole di ogni ordine e
grado". Il documento integrale può essere scaricato cliccando qui.

Vengono così fugati tutti i dubbi che erano stati sollevati, in seguito
all'entrata in vigore del "pacchetto sicurezza", in merito al diritto dei
minori stranieri figli di cittadini stranieri irregolarmente soggiornanti di
accedere all'asilo nido e alla scuola materna, nonché alla scuola secondaria
superiore e alla formazione professionale almeno fino all'adempimento del
dovere di istruzione e formazione.