Un'altra iniziativa messa in atto dal Comitato Primo Marzo di Trieste contro la sanatoria truffa: stata preso un accordo con il quotidiano "Il piccolo" per publicare quattro articoli scritti da intellettuali locali (tra quelli che hanno firmato l'appello) a lo scopo di sensibilizzare la città sull'argomento.
ETICA MINIMA. SOGGETTO SENEGALESE (E COMUNQUE AFRICANO)
di Pier Aldo Rovatti
Il lavoro e l’immigrazione sono le due questioni in grado di far saltare il tavolo della società italiana. Quando poi si intrecciano, come accade ogni giorno e a ogni latitudine del nostro Paese, la miscela risulta esplosiva, pensiamo solo ai fatti di Rosarno.
È una miscela diabolica poiché vi si riversano tutti i veleni della cosiddetta anomalia italiana: la corruzione che inquina e talora raddoppia le istituzioni, il cinismo pubblico e privato, il razzismo spesso esplicito nella sua violenza, la furbizia dei potenti e di tutti i loro imitatori, un’idea perversa di italianità usata come bandiera ma che poi si riduce nei fatti a un desolante egoismo individuale.
Trieste è una città bellissima che non cambierei con nessun’altra, ma Trieste - a volte e non per caso - è anche il laboratorio dove alcuni aspetti della miscela che ho detto fanno le loro prove, attribuendo talora a questa città un ruolo poco invidiabile di avamposto. Mi riferisco alla cronaca di ciò che sta accadendo in fatto di ”emersione” del lavoro sommerso dei soggetti che chiamiamo ”badanti” o ”colf”.
Soggetti a cui la "sanatoria" ministeriale del settembre scorso dava appunto la possibilità di emergere regolarizzando la loro condizione di illegalità. Quello che è successo, e che sta succedendo da allora, ha assunto contorni inquietanti, una specie di beffardo imbroglio che si è trasformato in un subdolo meccanismo di espulsione per molti lavoratori immigrati che hanno creduto nella sanatoria e vi si sono affidati, in tal modo autodenunciandosi all'ufficio stranieri della questura.
Il Piccolo ha avuto il merito di fornire ai suoi lettori adeguate informazioni su tale beffa che testimonia clamorosamente il degrado dell'etica pubblica oggi in Italia: dagli articoli di denuncia di Paolo Rumiz (figlio di emigrante, come si firma, e parte in causa come datore di lavoro di un irregolare), all'appello di molte personalità del mondo culturale, alla nascita del movimento cittadino "primo marzo", al racconto dettagliato di alcuni tra i casi che si stanno verificando in questo periodo con il loro corredo di sottili violenze e patenti illegalità. Punte di un iceberg perché ce ne sarebbero tante altre di
storie da raccontare e denunciare, calvari personali allucinanti che si moltiplicano quasi ogni giorno.
Mi limito solo a ricordare che la sanatoria ministeriale, con l'intento apparentemente assai virtuoso di favorire l'emersione e la regolarizzazione, assicurava che «nelle more della definizione del procedimento lo straniero non può essere espulso», a meno che non si fosse macchiato di delitti pesanti (quelli che prevedono per la loro gravità una pena detentiva non inferiore ai cinque anni). Questa assicurazione è risultata illusoria nel momento in cui si è trattato di esaminare le domande di regolarizzazione (calcolate in 300mila sul territorio nazionale), ed è successo che lavoratori in buona fede, provvisti di contratto di lavoro, dopo aver pagato una cifra non così piccola (500 euro di multa più tutti i contributi previdenziali nel frattempo maturati), si sono visti equiparare a delinquenti comuni, respingere le loro domande, annullare ogni garanzia di diritto, avviare all'espulsione ed essere di fatto espulsi dal nostro paese. A loro carico, il semplice fatto di non avere ottemperato a un pregresso provvedimento di espulsione.
Ho parlato di un fenomeno vistoso e grave, di degrado dell'etica pubblica. Molti elementi concorrono a disegnarne il profilo: in primo luogo, la non certezza del diritto, un diritto prima affermato nel testo di legge e poi disatteso nelle pratiche locali, corretto in modo discutibile da una tardiva circolare, anzi alternativamente sostenuto e negato nelle
indicazioni ufficiali. Come se l'istituzione fosse un corpo molle che una volta dice e una volta disdice, affidandosi a una pluralità di canali e creando una sorta di cortina nebbiosa che permette ampi margini di manovra repressiva. Non sempre la scorrettezza delle procedure (per esempio, il modo improprio di comunicare l'eventuale respingimento della domanda di regolarizzazione, procedendo senza garanzie all'espulsione) ha permesso ai giudici di pace e alla magistratura di interporre effettivamente la tutela del diritto (e là dove ciò ha potuto accadere le sentenze sono state in genere favorevoli al lavoratore).
Questa "incertezza" del diritto, che ha tutta l'aria di essere stata costruita ad arte, come una forma duttile di repressione, va a braccetto con una diffusa cultura della "discriminazione" che ha dato il cambio all'apparente benevolenza della sanatoria del 2009, e che ora si palesa apertamente nelle varie note di servizio in una delle quali si può leggere, come identificazione del lavoratore lì in questione: «Senegalese (e comunque africano)».
D'altronde, la cultura della discriminazione in cui noi, oggi, siamo sommersi e dalla quale non riusciamo a emergere, era sotto gli occhi fin dalla stessa sanatoria governativa che isolava da tutti gli altri un gruppo di lavoratori stranieri da regolarizzare (le o i "badanti", appunto) con la motivazione dell'utilità sociale delle loro prestazioni. Sociale, ma anche personale - veniva da pensare -, considerando la presenza di queste figure assistenziali, certo nelle case di moltissimi italiani, ma presumibilmente anche nelle stesse di chi si preoccupava di varare il provvedimento.
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