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Le buone pratiche esistono anche al Sud

lunedì 12 luglio 2010

Articolo di Stefano Galieni tratto da Liberazione del 6 luglio 2010

Nardò, Comune di circa 33.000 abitanti, sorge in una delle zone più belle del Salento. Terra di turismo ma anche di agricoltura: da qui ogni anno partono tonnellate di angurie dirette verso i mercati della Germania e della Francia. Il lavoro di raccolta è duro, si formano squadre di almeno 6 persone, che contrattano col proprietario terriero il prezzo della raccolta in base agli ettari, prima ci si sbriga e più si guadagna, si può arrivare a guadagnare anche 100 euro al giorno, ma alla sera ci si ritrova con la schiena distrutta. Allora una doccia, un posto confortevole in cui cucinare, mangiare e dormire, servizi igienici e tranquillità diventano fondamentali. «Negli anni passati – racconta l’assessore all’agricoltura Carlo Falangone, socialista rimasto tale, come ci tiene a dire – i lavoratori, immigrati ormai abituati a fare la stagione da noi, dormivano in ruderi abbandonati, senza servizi e finendo anche nella rete del caporalato, che sottraeva salario. Quest’anno stiamo provando a fare qualcosa di diverso». Usufruendo della legge regionale pugliese per l’emersione dal lavoro nero, a Nardò è stato possibile presentare un progetto per la ristrutturazione di una masserizia. L’immobile non permetteva di ospitare i circa 400 lavoratori che si aggregano con la stagione calda, per questo la masserizia è divenuta la struttura per offrire i servizi essenziali mentre intorno è stata allestita, con l’intervento della Provincia di Lecce, una tendopoli. «Per ora ospitiamo circa 200 lavoratori – racconta Gianluca Nigro – coordinatore del progetto- ma in tempi brevi dovrebbero raddoppiare. Nell’immobile c’è uno spazio sanitario, con un medico della Asl presente tutti i giorni feriali dalle 17 alle 20, bagni chimici, docce, sportelli di consulenza legale, di informazione per l’accesso ai servizi e di tutte quelle che sono le pratiche che possono riguardare la vita dei lavoratori». Si è insomma innescato un meccanismo positivo di intervento sperimentale che ha visto coinvolti numerosi soggetti: le istituzioni (Provincia, Comune, Prefettura, sindacati e organizzazioni datoriali) l’associazione “Finis Terrae” (del territorio), e i volontari delle Brigate di solidarietà (protagonisti mai abbastanza valorizzati dell’intervento di solidarietà all’Aquila nelle ore immediatamente successive al terremoto). Numerosi gli aspetti che aprono anche a prospettive future:«Non solo migliorano le condizioni di vita dei braccianti ma – ricorda Falangone – sentendo la presa di responsabilità delle istituzioni, i proprietari terrieri, si sono dimostrati più disponibili a ingaggiare i lavoratori». L’ingaggio è la messa in regola, è la garanzia di previdenza sociale e di assistenza sanitaria, è la possibilità di poter avere maggior potere contrattuale nel momento in cui si tratta per poter avere un giusto compenso, un conquista che lo scorso anno era ad appannaggio di poche decine di “fortunati” e che già si è quantitativamente almeno triplicata. E’ insomma un passo avanti nella dignità del lavoro, insufficiente ancora rispetto ai lacci e lacciuoli posti tanto dalla Bossi Fini quanto dalla mancata ratifica del governo della direttiva europea per l’emersione dal lavoro nero, ma va verso un progetto capace di coniugare dignità e accoglienza. Il progetto andrà avanti almeno fino al 31 di agosto, fino a quei giorni ci sarà bisogno di volontari delle Brigate di solidarietà, ma già si propone di proseguire. Il nucleo storico dei braccianti è composto da cittadini tunisini che da tanti anni vivono in Italia, negli anni si vanno aggiungendo molti provenienti dall’Africa Sub sahariana, richiedenti asilo e rifugiati che cercano di guadagnarsi da vivere dopo mesi di parcheggio nei centri di accoglienza e, è questo il fenomeno nuovo, numerosi lavoratori provenienti dalle fabbriche in crisi del nord. Persone che dopo aver perso il lavoro pagando per primi la crisi rischiano di ricadere in condizioni di irregolarità amministrativa e quindi di essere espulsi. Il campo di Nardò non è il paradiso, ma non somiglia per nulla ai tanti tuguri in cui sono costretti in migliaia in tutto il meridione, in aggregazioni le cui condizioni sono state definite dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e da Medici Senza Frontiere, simili o peggiori di quelle che si riscontrano nei campi profughi in prossimità di luoghi di guerra. Molti di coloro che oggi sono a Nardò fanno parte di quella catena ormai stabile composta da migliaia di persone che attraversano il meridione di raccolta in raccolta, fra Puglia Basilicata, Calabria e Campania. A Nardò hanno i documenti, ma molti, negli altri luoghi di raccolta e di sfruttamento, ne sono sprovvisti, con costoro intervenire è più difficile ma va fatto. Infatti, soprattutto fra i ragazzi delle Brigate sta prendendo corpo l’idea di mettersi in correlazione con i tanti e le tante che lavorano, spesso in emergenza assoluta nei luoghi a più alta conflittualità : da Rosarno – sono proprio oggi passati sei mesi dall’innesco della rivolta che ha evidenziato una situazione insostenibile – a Castelvolturno, a Palazzo S. Gervasio, a S. Nicola Varco, ai paesini della “Capitanata”. L’ipotesi di lavoro è quella di andare ad intrecciare esigenze, esperienze, problematiche e competenze, il sogno ambizioso quello di dar corpo e vita autonoma ad una ipotesi di vertenzialità mutualistica comune che interrompa la catena dello sfruttamento neoschiavista e in cui sarà decisiva la capacità di auto organizzazione dei lavoratori. Ci vorrà tempo, impegno e capacità di costruire lavoro di coalizione fra movimenti che spesso hanno agito solo nel proprio ambito locale, è un lavoro non solo possibile ma necessario.

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