Cosa succederebbe se migliaia di infermieri, pizzaioli, muratori semplici e specializzati, saldatori, mulettisti, badanti, baby sitter, cassiere, capireparto, artisti, mediatori culturali ed educatori, addetti alle pulizie negli uffici, custodi e concierge, camerieri, operatori turistici, centralinisti, magazzinieri, operatori informatici, insegnanti, medici, politici, opinionisti, giornalisti…si fermassero tutti insieme?
E cosa succederebbe se insieme a loro si fermassero studenti medi e universitari, casalinghe, liberi professionisti dell’edilizia, dei trasporti privati, dei settori dei servizi?
E se a questi si aggiungessero anche i loro colleghi italiani, impiegati negli stessi settori, partecipi delle stesse attività, accomunati dal senso di squilibrio e disuguaglianza che colpisce tutti?
Basterebbero poche ore di sciopero generale per raggiungere l’obiettivo: affermarsi come lavoratori e come persone.
Il 1 maggio del 2006 negli Stati Uniti si sono fermati 12 milioni di persone, la stragrande maggioranza senza permesso di soggiorno, per protestare contro l’introduzione, nell’ordinamento legislativo americano, del reato di clandestinità.
Lo stesso reato introdotto dall’Italia ad agosto di quest’anno.
Ma qui non si è ancora lamentato nessuno, né tra i sans papier né tra chi un documento ce la e se lo tiene stretto, né tra gli italiani.
Silenzio.
Perché gli americani ce la fanno e noi no? Da quando siamo meno intelligenti di quei bistecconi palestrati che amano piangere al cinema e pensano che il Colosseo sia la copia di quello di Las Vegas?
Dal momento che non credo in un’immutabile destino avverso, allora è davvero il caso di dire che ci stiamo facendo battere dagli americani sul piano dei diritti e che sarebbe ora di darsi una mossa.
Una spiegazione di questo silenzio potrebbe stare in un diffuso (sia tra i cittadini italiani che tr quelli stranieri) senso di inferiorità, nella mancanza di consapevolezza del proprio valore, nella sensazione fatalista che nulla si possa fare contro le Potenze del Male.
Un’altra spiegazione potrebbe stare nella sensazione di isolamento che taglia qualunque desiderio di ribellione e di affermazione.
Credo che siano valide entrambe le spiegazioni e che la soluzione stia nel dire semplicemente che entrambe possono essere cambiate.
Siamo in tanti, abbiamo lo stesso obiettivo e abbiamo la capacità e gli strumenti per organizzarci.
Siamo consapevoli del valore che ciascuna persona ha e del fatto che deve essergli riconosciuto.
Siamo convinti che fare, agire, muoversi, sia lo strumento più efficace che ci sia per affermare le proprie convinzioni e soprattutto per dire: siamo qui, non potete ignorarci.
L’Italia vive grazie al lavoro di migliaia di cittadini provenienti da altri paese e se ne vergogna – di conseguenza cerca di ignorarli, chiuderli fuori, annegarli in mare come si fa con le cucciolate di gattini troppo numerose (letteralmente).
Io non me ne vergogno, anzi la mia vita ha subito dei cambiamenti, a volte in maniera semplice e facile, altre volte con difficoltà e fatica, grazie alle persone che ho incontrato: mi sono trasformata e sono cresciuta, ho imparato forme di pensiero e stili di vita nuovi, alcuni li ho fatti miei, altri li ho lasciati alla persona che me li ha proposti perchè non ho mai, in nessun caso, smesso di essere me stessa (e in questo me risiede anche il fatto di avere cittadinanza e cultura italiane) – né le persone ce ho incontrato hanno mai smesso di essere sé stesse.
Il valore che la migrazione porta in sé è connesso alla forza lavoro e alla necessità economica, ma poi va al di là di questa e significa un insieme di caratteristiche umane e culturali, filosofiche e sociologiche che è impossibile e stupido ignorare.
Il valore che la migrazione porta in sé è superiore a qualunque difficoltà, che poi, ammettiamolo, non va al di là di qualche lentezza linguistica, del dare allo stesso Dio un nome diverso, nell’aggiungere spezie sconosciute alla stessa carne e allo stesso pesce.
Provare per credere.
Se smettiamo di farci spaventare da una tempesta in un bicchiere d’acqua e contribuiamo a creare una società migliore e più accogliente per chi arriva, siamo migliori noi.
In questa battaglia dobbiamo essere insieme: chi è straniero, con o senza permesso di soggiorno deve assumersi la responsabilità di non farsi calpestare, di affermare la propria dignità umana e morale; chi è italiano, con più o meno senso civico, deve assumersi la responsabilità di non lasciarsi rubare la società migliore che possa desiderare per sé e per i propri figli.
Non tutti hanno la forza di intraprendere un cammino politico, né credo sia necessario che tutti lo facciano, ma ci sono momenti in cui un gesto semplice sostiene e dà la spinta per un grosso cambiamento e in questi momenti è necessaria la presenza di tutti: lamentarsi non serve a nulla, scappare è sciocco, fare finta di niente è un grosso errore.
Fermiamoci il 1 marzo 2010.
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