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Primo marzo a Palermo, il primo colpo di scopa

sabato 6 marzo 2010

Ubuntu me l’ha imparate le regole!”. Fine. Si, potrei facilmente finire qua. A quelle due guance, quegli occhi, quel sorriso di bambino. C’era qualcosa di più quel giorno, quel tanto sospirato Primo di marzo. La volontà. La volontà c’era. Aveva fra le mani un palloncino, un tamburo, un microfono, uno striscione. Era alta, bianca, robusta, vecchia, innocente, esperta, giovane, magra, bassa, nera. Era autoctona, ma era immigrata. Un corteo sociale non è una festa, ad un corteo non c’è mai troppa o troppo poca gente. Ad un corteo c’è sempre chi ci deve essere. La comunità immigrata quel giorno era in piedi, pronta, dove doveva essere. Lì, a prendersi i propri spazi, la propria visibilità, il proprio diritto ad esserci e rimanere. Sulle strade. Sulle strade e sulla politica, sulle strade e sul razzismo, sulle strade e sulla follia. Sulle parole vomitate da politici saccenti, sulle botte di chi nasconde il proprio odio nelle tenebre,e anche sui pugni cromatici delle bandiere di chi si intestardisce a dare un colore ad idee che non dovrebbero averne.

Quel giorno la volontà non era sola. C’era la speranza. Gialla. Una striscia gialla che sembrava infinita, perché ognuno lasciava dietro se come una scia della stessa speranza. «Credono di poter cambiare le cose, che se ci provi qualcosa puoi smuovere», «ci credono proprio fermamente, e fanno paura». Non mi hanno fatto paura. Mi hanno dato forza. Quella marcia aveva l’aria di qualcosa di inarrestabile. Era un urlo che pareva spandersi per l’intera città, da quel centro storico che sembrava avere nuova luce, nuova energia vitale. Era un colpo su un tamburo che faceva tremare la terra, la scuoteva in tutto il suo vigore, la ribaltava. Sembrava poter chiudere le crepe dell’ingiustizia e dello sfruttamento ed aprire nuovi sentieri al vivere comune e al sentire sociale. Il loro spirito pervadeva la città. Loro erano la città. Oltre il nulla.

La gente ha proprio reagito come mi aspettavo, «non hanno che fare e fanno vucciria», «chi hanno i chianciri chisti?», «talia quanti nivuri!». Indifferenza totale. Non razzismo, ignoranza. Un giorno capiranno anche loro, come hanno capito le comunità migranti. Capiranno come capiscono i giovani dei comitati solidali antirazzisti. E saranno lì a marciare. A marciare fra i missionari laici comboniani e i volontari di emergency. Un giorno agiteranno anche loro quei gialli palloncini. Li agiteranno a fianco delle comunità africane, asiatiche, a fianco dei bambini di Ubuntu, dei Cobas, a fianco di quei fratelli che ora si rifiutano di conoscere e accettare. E un giorno ci saranno anche quelli che hanno avuto paura, quelli che non ce l’hanno fatta ad alzarsi, quelli che non hanno potuto esimersi dall’ennesima giornata di sfruttamento negriero. Saranno anche loro a fianco di chi già si è mosso, e anche loro, con il cuore pieno di commozione, stringeranno i pugni a trattenere e mantenere intatta la propria dignità. Un prossimo Primo marzo io sogno così Palermo. Sogno una città che si rifiuta di sfruttare e di accettare lo sfruttamento di chi ancora non viene considerato un cittadino. Di chi ancora non viene considerato una persona.

Questo Primo marzo è stato solo il primo colpo di scopa. La forza di quelle voci, urlate dentro microfoni che vibravano come in procinto di esplodere sotto la prorompente pressione della verità, scagliata contro tutti i sordi di palazzo e di strada, possiede già la carica e l’ambizione necessaria per ramazzare e cancellare ogni traccia dell’insostenibile situazione attuale. La richiesta di integrazione deve necessariamente trasformarsi in pretesa. Il diritto a vivere in una società che mi rispetti e che mi conceda di dare il mio contributo affinché si migliori. Il diritto a non essere un migrante per sempre! La società. La società e l’umanità. Belle parole, bravo.

E l’economia? L’economia. Come scordare il grandissimo contributo degli immigrati all’economia italiana! Gli immigrati sono utili all’economia! Ci servono! Abbiamo bisogno di loro per sopperire alle esigenze del nostro sistema produttivo! Chi, se non gli immigrati, pagheranno le pensioni nostre, dei nostri padri e dei nostri nonni? Chi lo farà? Silenzio. Di certo non i nostri giovani, migranti anch’essi verso terre che valorizzino il loro enorme potenziale. E allora chi? Ah, già! Gli immigrati! Grazie immigrati! Grazie mille! Grazie! Grazie davvero. Si, ma c’è un problema. Anzi, un problemone. E quando saremo noi, o i nostri figli a pagare le pensioni a gli immigrati che faremo? Si, perché penso che dopo aver lavorato una vita la pretendano sta maledetta pensione. E noi che faremo? Li cacceremo via? Cittadini usa e getta! La verità è un’altra. Ed anche il problemone. La verità è che la politica, la società, gli italiani, uno per uno, devono capire le cose. Devono capire che un immigrato non è una risorsa, da sfruttare per il lavoro o la propaganda. Un immigrato è una persona! Quella marcia gialla ha cercato di spiegarmi che essere antirazzista non significa non essere razzista, è molto di più. Significa battersi, lottare ogni giorno contro la violenza, l’ignoranza, i luoghi comuni, il pregiudizio, la cecità di una società in cui lo sguardo non riesce ad andare oltre la pelle. Non riesce a scalfire lo sguardo altrui, a superarlo, a trovare un legame fra quegli occhi ed i suoi. Quel giorno, quel Primo di marzo (e lo so che ne parlo come se fosse accaduto in un tempo indefinito). Quel giorno lo schiavo ha bloccato la frusta nella mano del padrone. Un giorno riuscirà a spezzarla.

Giuseppe Campisi, Il Carrettino delle idee

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