La mattina del primo marzo a Siracusa c’era una nebbia fitta. Alle 8 in punto, come ogni giorno, le porte della Chiesa di Bosco Minniti (che di sera dalle 19 si trasforma in mensa e poi in dormitorio), si sono aperte e i circa 40 senza dimora, per la gran parte immigrati, si sono messi in cammino verso il centro, nei pressi dell’antico teatro greco, dove li attendevano studenti, cittadini, associazioni e altri migranti giunti da varie zone della città. Un corteo giallo che ha sfidato la nebbia, un colore acceso, solare, per fare luce sull’oscurità che sta avvolgendo tristemente il nostro Paese, un’oscurità che fagocita i diritti e il rispetto per gli esseri umani, soprattutto se migranti. Un corteo con oltre 300 persone, un momento storico per Siracusa e una cifra importante per una città ormai addormentata, cloroformizzata, anche se con qualche difficoltà in meno si sarebbe potuto fare molto di più. La parrocchia si è svuotata in pochi minuti, come avviene tutte le mattine, ma questa volta il silenzio è stato più pesante, il senso di vuoto si è avvertito con più forza, perché a Bosco Minniti non c’erano nemmeno i parrocchiani e i volontari: tutti in piazza, tutti a manifestare accanto agli immigrati. La vicenda che ha colpito improvvisamente padre Carlo D’Antoni, fondatore del comitato siracusano, e la sua comunità si è trasformata in una molla di impegno civile, ha svegliato anche coloro che erano più timidi, non fosse altro che per una questione di età. Nessuno si è risparmiato nel dare una mano al comitato ad organizzare, in un momento di enorme difficoltà, questa iniziativa dal forte significato, una giornata a cui chi da anni vive accanto ai migranti non poteva mancare. La ragione non è stata solo quella di voler camminare con i migranti in corteo ed urlare insieme il diritto a veder rispettata la loro dignità, il rifiuto dello sfruttamento del lavoro immigrato; c’era anche la voglia di esserci per “sostituire” chi non poteva partecipare pur avendo fortemente voluto questa giornata a Siracusa. Il grande assente era padre Carlo, costretto a rimanere nella sua abitazione, dietro quella finestra che il primo marzo era nascosta da una nebbia insolita. Non è bastato il giallo del corteo, né il sole che a metà mattinata ha fatto la sua prepotente apparizione, a nascondere l’assenza pesante di un prete che ha dedicato la sua vita agli ultimi e che il sistema della carcerazione preventiva, per ragioni tecniche dovute al passaggio dell’inchiesta da Catania a Napoli, costringe ancora a restare isolato come un criminale. Isolato dalla legge, ma non dai pensieri e dai sentimenti di tutti coloro che a Siracusa e nel resto d’Italia continuano a rivolgere appelli di solidarietà. L’ultimo è quello lanciato sul proprio sito dall’associazione “Senza Confine”, appello a cui hanno aderito e stanno aderendo molti protagonisti della cultura e della società civile italiana, come Renato Sarti e Moni Ovadia, per citarne due. E anche durante il corteo è arrivata la solidarietà. Oltre a quella dei comitati di Siracusa e di Catania, la manifestazione di vicinanza più toccante è stata quella spontanea espressa proprio da un migrante, il quale ha preso con rabbia il microfono e ha cominciato ad urlare slogan per la liberazione di padre Carlo e di Antonio De Carlo, collaboratore della parrocchia coinvolto nella stessa inchiesta e anch’egli ai domiciliari. “Libertà per padre Carlo”, “Libertà per Antonio”, questi gli slogan accolti con un’ovazione dai migranti in corteo, i quali hanno subito cominciato a scandirli in un italiano ricco di accenti diversi. Tutti gli immigrati che hanno preso il microfono o il megafono hanno voluto dare la propria solidarietà al prete siracusano. Ibrahim, ad esempio, con una certa emozione ha detto che “noi abbiamo lasciato tutto in Africa, io ho lasciato lì mio padre, e qui ho trovato padre Carlo che per me è stato come un padre, generoso e onesto”. Oltre al corteo, la giornata, organizzata dal Comitato Primo Marzo di Siracusa insieme all’Unione degli studenti, è proseguita all’Antico Mercato di Ortigia, nel centro storico, dove il comitato ha distribuito panini e bevande ai migranti presenti e agli studenti, per un pranzo a sacco multietnico. Subito dopo, con in sottofondo la musica di un dj set allestito e gestito da giovani italiani e immigrati (abbiamo scoperto che il nostro amico Suleyman è un ottimo vocalist), il cortile dell’Antico Mercato si è trasformato in luogo di giocolieri e artisti di strada, che si sono esibiti, coinvolgendo i migranti, alcuni dei quali si sono cimentati allegramente con bolas e devils o flowers, in una cornice variopinta, in cui spiccava il giallo di fasce, striscioni e palloncini. Nel pomeriggio, dalle 16.30 alle 18, sono stati proiettati tre documentari, il primo dei quali su Rosarno, con successivo dibattito. Particolarmente emozionante è stato l’intervento di Adama, che a Rosarno c’è stato e ha raccontato la sua verità, invitando italiani e migranti a camminare insieme perché “questo è l’unico avvenire possibile”. Poi, spazio ai concerti. Alle 18.30, con un gruppo ska già posizionato sul palco, abbiamo partecipato all’iniziativa nazionale del lancio dei palloncini gialli, ma lo abbiamo fatto a modo nostro: a causa della difficoltà ad acquistare l’elio (troppo oneroso per le nostre possibilità economiche), abbiamo usato i nostri polmoni, gonfiando centinaia di quei bellissimi palloncini offertici da Stefania Ragusa e dal comitato nazionale, che non smetteremo mai di ringraziare per la vicinanza e il sostegno. Ovviamente, l’aria dei polmoni non fa volare i palloncini ma può dare ugualmente fiato ai sogni e alle idee di giustizia che il primo marzo ha voluto simbolicamente affidare al lancio dei palloncini. Così, mettendoci un po’ di creatività, alle 18.30 in punto, per un minuto, immaginando cosa accadeva nelle altre città “gialle”, tutti i presenti hanno sventolato i palloncini e, al termine del minuto, li hanno lanciati in aria. Certo, dopo un secondo sono caduti, ma l’applauso era così scrosciante che sembrava li avessimo mandati sulla luna. Ci si accontenta. Durante i concerti è stato possibile ascoltare la bella voce di un ragazzo africano, Baba, grazie all’invito a salire sul palco fatto dal musicista tunisino Ramzi Harrabi, grande artista e amico del Comitato. E anche Mamadou e Soraya hanno avuto l’opportunità di farci ammirare la loro abilità nel ballo. Alla fine, la serata si è chiusa alle 20.30 con tante facce sorridenti, felici davanti alla promessa che questa giornata è solo un punto di partenza, non una tappa finale. Un momento di partecipazione democratica dal basso, senza cappelli politici, senza partecipazioni di facciata o sfilate ideologiche. Proprio com’è nello spirito del Comitato nazionale e del nostro comitato locale. Proprio com’è nel pensiero di padre Carlo e di chi con lui ha subito sposato questa iniziativa. Molti migranti sono tornati a mangiare alla mensa di Bosco Minniti, dove alle 21.30 le porte del dormitorio si chiudono per la notte. Un pasto caldo e una notte al riparo: per loro si chiude così questa giornata di diritti e di festa. Si chiude sotto il tetto accogliente di una chiesa di periferia, dove al piano superiore, in una piccola stanza, un coraggioso prete, il prete degli ultimi, attende di avere giustizia e di tornare tra la sua gente, che non vede l’ora di riabbracciarlo e che non smette di sostenerlo.
*di Massimiliano Perna
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