Il sole stava tramontando e si celebrava l’ultima cerimonia del giorno. Tutte cantavano insieme, tranne Modani che era da sola nel piano di sotto. Dalla piccola stanzetta appartata riusciva a sentire soltanto il suono acuto dei cembali e qualche tocco dei tamburi. Quando si avevano le mestruazioni non si poteva girare nel tempio, ne toccare i fiori, ne cucinare per altri, ne prendere tra le mani i libri sacri, ne parlare a nessuno. Si alzò dalla stuoia su cui era distesa e uscì dalla stanzetta. L’ assorbente era scomodo e la faceva camminare impacciatamene. Modani attraversò un corridoio buio, passò davanti alla lavanderia e raggiunse un piccolo bagno trascurato, c’era la tazza senza ciambella e un catino di metallo per terra pieno di acqua su cui galleggiava una vecchia scodellina di peltro. Quando si era mestruata bisognava lavarsi più volte al giorno, e Modani prese dell’acqua con la scodellina, e si lavò velocemente, provando disgusto verso il suo corpo. Prima di rientrare nella stanzetta si fermò per qualche minuto davanti alla porta; da lì ascoltava meglio i canti, e anche lei cantò a bassa voce seguendo i riti della celebrazione.
Seduta su quella vecchia stuoia di fibre di cocco, Modani si guardava i piedi distrattamente e pensava che tra due o tre giorni avrebbe finito il suo isolamento. Avrebbe potuto inginocchiarsi di nuovo nel salone delle cerimonie, tornare ai suoi doveri nelle cucine e dormire insieme alle altre monache. Ciò nonostante era triste, perché Subadra, la sua nipote di cinque anni non era più con lei. La madre di Subadra era molto povera, lavorava in una fabbrica d’incenso, e tutte le mattine, prima di andare al lavoro, portava la sua figlioletta da Modani. Modani prendeva in braccio Subadra e le dava del latte addolcito con del miele e un po’ di frutta, dopo la bambina si sedeva per terra in un angolo della cucina. Quando aveva pochi mesi, Modani la coricava in una grossa cesta, là dentro la bambina aveva imparato da sola a sedersi e a mettersi in piedi. Sempre aspettava in quel angolino che Modani finisse i mestieri, per essere accudita e coccolata. A pranzo mangiavano una minestrina di legumi e dello yogurt, poi la bambina riposava mentre Modani recitava le sue preghiere. Verso sera le faceva il bagno e la profumava con olio di sandalo. Tutte le monache erano abituate a vederle sempre insieme.
Ma tutto era ormai finito. Due anni fa il fratello di Modani, era emigrato a Natam, in quel paese aveva trovato lavoro in un’azienda casearia e adesso portava a vivere con se sua moglie e la sua figlia. Quando Subadra era molto piccola, la sua pelle odorava di riso dolce, il profumo del latte materno e i suoi primi capelli erano morbidi e scuri, Modani conservava con cura un piccolo ciuffo di quei capelli. La bambina che lei tanto adorava la avrebbe dimenticata, si, perché a Natam Subadra avrebbe imparato un’altra lingua, e poi sarebbe andata a scuola e conosciuto tanti bambini. Modani sapeva di molte persone che erano vissute a Natam e che al loro ritorno somigliavano ad alberi secchi, senza più un’anima. L’espressione dei loro volti diventava dura come se avessero dovuto camminare su punte di coltelli. Anche il loro modo di ridere cambiava. Qualcosa che somigliava alle ceneri dell’incenso bruciato, appannava i loro gesti. Modani aveva paura per Subadra. Si chiedeva cosa mai poteva esserci a Natam che abbatteva così le persone. Si addormentò piangendo, e sognò un cane bianco e magro, dagli occhi tristi e umiliati, con la coda stretta tra le zampe. Portava un collare di cuoio rosso che pulsava come un cuore con due lunghe corde legate, una stringeva Modani dalla vita, e l’altra … lei né era sicura che quell’altra corda stringesse Subadra, che arrivava fin dove si trovava la bambina. Voleva uscire dalla stanza seguendo quella corda per raggiungere Subadra, ma notò che delle morbide onde di un’acqua tiepida ma sporca entravano sotto la porta bagnandole i piedi.
“Ferma l’acqua” le ordinò il cane; ma Modani non pensava ad altro che a rivedere la bambina e così prese l’altra corda del cane per uscire dalla stanzetta.
“Ferma l’acqua!” le ordinò il cane per la seconda volta, Modani sapeva che non doveva aprire la porta; se lo faceva tutta quell’acqua sudicia e portatrice di sventure sarebbe entrata nella stanza e da lì avrebbe raggiunto il tempio, ma niente le importava e nel momento in cui girò la maniglia della porta e tutta l’acqua la investi trascinandola per terra, si svegliò sentendosi colare un denso sudore lungo il viso. Aprì gli occhi e le parve di vedere il cane acciambellato accanto a lei. Chiuse gli occhi, sapeva che il cane era l’amore che provava per Subadra e la paura che a Natam il sorriso della bambina potesse divenire cupo. Aprì di nuovo gli occhi. Il cane era sparito. Una monaca le portò del tè e due fette di pane con burro e miele; e mentre mangiava, ricordò un piccolo ciondolino d’ambra a forma di goccia che una volta aveva regalato a Subadra. L’ambra serviva a proteggerla dagli spiriti maligni, da quelli che hanno sempre vagato per l’aria tentando di impossessarsi dei corpi dei bambini; spiriti desiderosi di far ritorno nel mondo materiale, affamati di un corpo, vogliosi ancora dei piaceri carnali. Modani temeva che a Natam ci fossero molti di quelli spiriti; meno male che Subadra portava sempre quel ciondolo al collo.
Passati due giorni Modani lasciò la stanzetta del suo ritiro. Le monache raccontano che dopo la partenza di Subadra, Modani non parlò più con nessuna di loro. Finiti i lavori in cucina, passava il resto del giorno pregando in disparte. Soffriva di sogni agitati e molte volte si svegliava nel mezzo della notte piangendo, come in preda ad un forte dolore. Qualcuno ha detto che deambulava con i piedi bagnati d’acqua sporca, e di avere visto insieme a lei un cane bianco, magro e dagli occhi tristi che la inseguiva dappertutto.
*di Aurora Filiberto Hernàndez
Related Posts:
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
1 commenti:
Molto bello questo racconto, trovo coinvolgente la rappresentazione e il simbolismo della separazione, il distacco e le paure del migrare in contrasto con il raccoglimento che scandisce la vita quotidiana tra i riti e le cose familiari, mi è piaciuto molto l’elegante uso della lingua italiana.
6 marzo 2010 alle ore 14:20Un ulteriore prova della presenza che arricchisce l’Italia e che forse anche aiuta un poco a risvegliarla dal torpore e l’egoismo consumista, edonista.
Laura
Trento 06-03-10
pienamente solidaria con tutti i movimenti di accoglienza e integrazione culturale.
Posta un commento